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Andrea Labate –
Prefazione a “La resa del margine” (Arcolaio 2015)
articolo di davide castiglione
Pubblicato
il novembre 2, 2015
[Andrea
Labate, un autore mio coetaneo che ho conosciuto prima tramite il concorso Pubblica con noi di Fara editrice (la
sua fu una delle poche sillogi del concorso a colpirmi) e che poi mi ha
mandato alcuni suoi testi per Laboratorio in
differita, ha pubblicato la sua opera prima La resa del margine per la casa editrice Arcolaio di Gianfranco
Fabbri, che sta emergendo come una delle più pregevoli realtà della piccola
editoria di poesia in Italia, con una lista di autori di sicuro valore (mi
limito ad alcuni nomi che conosco abbastanza bene: Biagio Cepollaro, Stefano
Guglielmin, Giacomo Cerrai, Gianluca D'Andrea, Lorenzo
Mari...). Qui sotto trovate parte della mia prefazione (leggibile per
intero al sito La costruzione del
verso) e alcuni
tra gli inediti che Andrea ha gentilmente voluto concedermi, e che si pongono
in linea di continuità, mi pare, con le poesie contenute nel libro. Buona
lettura.]
Dalla
prefazione
“Ci sono autori
in cui il talento – per quanto non sempre affrancato dai modelli di cui si è
nutrito – non può fare a meno di offrirsi alla lettura con naturalezza, quasi
con grazia. Andrea Labate mi sembra essere tra questi. Me ne resi conto, e
glielo scrissi, valutando un paio di anni fa per un concorso un mannello di
suoi testi, e in seguito in una nota privata dove ne approfondivo tre che sarebbero
confluiti in questa opera prima e già matura, La resa del margine.
Qual è il margine che si arrende o che viene reso, consegnato? È una zona periferica e simbolica dove avviene di continuo la transazione io-mondo, declinata talora come disponibilità all’altro (“c’è un vento leggero che ci avvicina”, Giù) talaltra come ferita e sconfitta. C’è certamente una faglia, una lacerazione dalle molte incarnazioni testuali – è lì che si situa il margine. Leggiamo infatti, fra altri esempi possibili, di un “muro di stagnola che separa i passi soffocati dalle metropolitane” (Vorrei fare un tentativo ma ho trovato un posto di lavoro), di un “confine” in Parallelismi e di “ferri a bisettrice nella pancia” in Preparazione: il margine si sta colmando; fino allo “sbrego” dell’ultima poesia (Sdì è un nome che non riesco a immaginare) che va “premuto con le dita, fino a saturazione”.
Qual è il margine che si arrende o che viene reso, consegnato? È una zona periferica e simbolica dove avviene di continuo la transazione io-mondo, declinata talora come disponibilità all’altro (“c’è un vento leggero che ci avvicina”, Giù) talaltra come ferita e sconfitta. C’è certamente una faglia, una lacerazione dalle molte incarnazioni testuali – è lì che si situa il margine. Leggiamo infatti, fra altri esempi possibili, di un “muro di stagnola che separa i passi soffocati dalle metropolitane” (Vorrei fare un tentativo ma ho trovato un posto di lavoro), di un “confine” in Parallelismi e di “ferri a bisettrice nella pancia” in Preparazione: il margine si sta colmando; fino allo “sbrego” dell’ultima poesia (Sdì è un nome che non riesco a immaginare) che va “premuto con le dita, fino a saturazione”.
Scrivere, del
resto, è tessere (testo = textus, tessuto), cucire, curare: non è forse un caso
che il testo d’apertura alluda a una malattia e a un malessere difficili da
articolare:
La terra è sparsa sulle diagonali
racimola un contagio familiare.
L’aquila in cielo non spaventa le nuvole.
racimola un contagio familiare.
L’aquila in cielo non spaventa le nuvole.
Fuori è un impatto d’afa, chiodano
il bronzo scaduto agli edifici fatiscenti
nel pomeriggio stanco che svapora.
il bronzo scaduto agli edifici fatiscenti
nel pomeriggio stanco che svapora.
Se ne va, l’alone tarantola le garze
il letto è scomodo, la morfina
fa il suo giro.
il letto è scomodo, la morfina
fa il suo giro.
A conferma della riuscita del testo, è utile
soffermarsi sul-l’ambivalenza di “contagio familiare” (contagio usuale, o
relativo a un membro della famiglia?), sui correlativi oggettivi di un probabile
malato (“edifici fatiscenti”, “pomeriggio stanco che svapora”), sull’anonimità
del referente (chi è che “se ne va”?) o sulla violenza agentiva dell’alone che
“tarantola le garze”, con scelta di verbo dinamico, espressionista. O ancora
sul ritmo petroso e preciso dei versi, sul contrasto tra la solidità della
struttura e l’opacità inquietante della scena allusa. Tale procedere
netto, dichiarativo, cui si accompagna un gusto per lo straniamento dell’immagine, è una costante
del libro
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