mercoledì 20 febbraio 2013

ARTICOLO DI LORENZO VIGANO', SUL CORRIERE DELLA SERA.







Il volume, lo spettacolo              SU  IL CORRIERE DELLA SERA  DEL 17 FEBBRAIO 2013
Il sereno amore di Dino Buzzati
L a scrittura. I significati nascosti dei suoi romanzi e racconti, da «Il deserto dei Tartari» a «Sette piani». Il rapporto donna-città. E poi i misteri, le angosce, i silenzi. La morte. Non c'è un aspetto de «L'opera multiforme di Dino Buzzati» che Mauro Germani, scrittore, saggista e poeta, dimentichi di analizzare in «L'attesa e l'ignoto» (L'arcolaio, pagg. 248, 15), il volume, di cui è curatore, che ripropone alcuni saggi già pubblicati sul numero 7 della rivista «Margo» (ormai esaurita), più altri scritti inediti redatti per l'occasione da critici e autori contemporanei. Si parla di pittura e poesia, di musica e teatro, del senso di infinito (con tanto di formule) ne «I sette messaggeri» e di «Poema a fumetti» (che da domani fino al 28 va in scena al Teatro Libero nell'interpretazione di Paolo Valerio). Ci sono, persino, due testi del 1949 non inseriti nel libro «In quel preciso momento». E c'è, soprattutto, il ritratto dell'uomo Buzzati che non soltanto l'analisi accurata della sua opera disegna in maniera sempre più chiara, ma che anche alcuni episodi quotidiani mettono a fuoco. Come il ricordo di Ottavio Rossani che nel 1970, volendo intraprendere la carriera giornalistica, si presentò al «Corriere» chiedendo, senza appuntamento e senza conoscerlo, di parlare con Buzzati. Lui lo ricevette, ascoltò la sua storia e gli procurò un colloquio al «Corriere d'Informazione» dove qualche mese dopo venne assunto. O come l'intervista di Mauro Gaffuri alla moglie Almerina (sposata dallo scrittore sei anni prima di morire), ricca di ricordi sul loro incontro e gli anni «sereni» del matrimonio dopo il tormento che aveva generato «Un amore». «Io gli ho voluto veramente bene», ricorda Almerina: «lui era il mio amore, ma io non glielo dicevo, oppure glielo dicevo scherzando. Vista la sua esperienza precedente, non volevo che l'amore diventasse una malattia anche tra noi due».
Lorenzo Viganò

lunedì 18 febbraio 2013

VINCENZO FRUNGILLO RIFLETTE SU "PORTA A OGNUNO" DI CRISTIANO POLETTO. DA ATELIER




Recensione a Cristiano Poletti, Porta a ognuno, L'arcolaio, 2012


Nel suo ultimo libro di versi Porta a ognuno (L'arcolaio editore, prefazione di  Sebastiano Aglieco, 2012) Cristiano Poletti scrive: Ho camminato solo / in mezzo ai trent'anni / sono ancora là, / ma l'angelo non mi trova - / precipitato come sono, / in fondo / in un grumo il sangue e più in là / la mia preghiera interrotta. La poesia s'intitola Del 28/9, non è dato sapere a cosa si riferisca la data del titolo, in questo breve componimento, però, sono rintracciabili alcune costanti della silloge: il cammino, il corpo, il senso della storia. L'incipit della poesia è una parafrasi del verso d'apertura della Commedia dantesca, ma nel testo di Poletti il verso viene spezzato come per far precipitare l'io nella caducità del tempo: nessun angelo, nessun messaggero divino, nessun legame con il cielo solleva dal tempo e dalla creaturalità dell'uomo. Si resta sulla strada come portatori di parole e di sangue. La chiosa della poesia è affidata a due versi, che sono il risultato di una perfetta cesura di un endecasillabo: Ho scritto poesie, / raramente belle. L'autore dichiara di avere scritto poesie, come se fossero cose accadute nel passato e non più esistenti, poesie che erano "raramente belle". La cesura ha lo stesso effetto che poteva avere il taglio di Fontana sulla tela, fa sì che l'opera esca da se stessa e si riveli come ferita, faglia da cui filtra la mortalità dell'uomo. Il sangue, l'aspetto biologico delle creature, fa capolino in molti componimenti di questo libro e se in Poletti c'è un afflato lirico e verticale, di stampo luziano, è anche vero nella sua poesia agisce un contro meccanismo di esposizione dell'io al disfacimento. Queste due forze caratterizzano tutti i versi della raccolta. Lo stesso autore in una recente intervista ha messo l'accento sull'essenza "impressionista" delle sua poesia, dove l'io più che dire se stesso, viene detto dalla ferita della parola. I riferimenti filosofici non mancano in questo libro, sono quelli della formazione del poeta, Agostino su tutti. Ma per volontà etica e per pregnanza e precisione di sguardo non sfigurerebbe nella silloge di Poletti una proposizione di Wittgenstein che recita: "I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. C’è realmente soltanto un'anima del mondo, che io di preferenza chiamo la mia anima, e in base alla quale solamente concepisco le anime degli altri". Nella poesia dal titolo Chiaro il resto troviamo i bei versi che recitano: Su per la collina, poi in cima / l'ordine di un disegno, la casa, / pare un cerotto messo al prato. // Confuso, il viso / prestato al paesaggio, / ferito dai giorni [...] Anche in questa composizione lo sguardo del poeta sembra schiacciarsi sulla grata della parola. Qui si parla chiaramente di un disegno della mente interrotto dall'immagine della casa. La parola, la ferita di cui sopra, è allo stesso tempo riparo, rimedio. Il solo possibile. Così chiaro il resto, / sul monte appena distante / il valzer nemico / inizia in un momento. // Si, arrivano, non c'è tempo, / la piastrina smetterà / di ricucire il sangue. / L'uomo preparato a questo. / È quel che pensavo, / è ciò che amo e lo riconosco. Questi sono tra i versi più forti del libro, cantabili in una filigrana di assonanze, dove si riconoscono richiami a Celan e al primo Zanzotto. L'ermetismo, di cui Poletti pure si nutre, è superato dalla volontà di stare tra gli altri, di farsi testimonianza della condizione comune. In questo la versificazione di Poletti sembra mettere insieme le due fasi della poesia di Luzi, quella precedente alla raccolta Nel magma e quella successiva, che ha il suo culmine ne Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Le tracce di quanto diciamo si fanno più evidenti nel proseguire la lettura di Porta a ognuno: Brucia al sole aperto degli auspici, / fino alle posizioni del sangue, / la nostra attesa. Ci portiamo / dal meccanismo del rifugio / al labirinto dell'alfabeto. // È qui - qui sopra - / che chiamiamo / qualcosa, qualcuno. / Un grido, un giorno. [...] Come le mani, così i pensieri / si aggrovigliano. È vero, / c'è odore di camino. // Il futuro dell'io che brucia / annuncia il freddo. // Al rifugio, certo, / torneremo (Il rifugio). Anche nella poesia Grammatica troviamo lo stesso procedimento: Forse nessuno si è mai ritrovato / su questa, su altre pagine. Nemmeno / di me c'è traccia. Non mentire: / la vita ci vuole / fuori dalla letteratura. La parola cattura ancora una volta nel bivio, nella sua funzione elementare di "gabbia gettata sul mondo". Non si tratta di decidere per l'elemento simbolico o naturale, bisogna ricordare che la parola poetica, qualsiasi sia la sua forma o espressione, riconduce chi legge, e chi scrive, alla condizione originaria dello zoon, al nostro essere una ferita della natura. Ma la parola è anche memoria della nostra faglia naturale, memoria dello spazio creaturale che ci è dato vivere. Questo spazio è da dire sempre e comunque, non è acquisito mai del tutto. Da qui il cammino. Ricordami, se dimentico / questa luce naturale. Entri pure, / mi tocchi se vuole, poi via / dalla mente, e si sbrighi, sul foglio (Ricordamelo, per favore). Non esiste un luogo che ci contenga, non esiste parola che ci acquieti. Questa è la cifra della nostra animalità, ed è da sempre la cifra del tempo.    


Vincenzo Frungillo

martedì 5 febbraio 2013

FRANCESCO FILIA RIFLETTE SU "LA TERRA FRANATA DEI NOMI" DI GABRIELE GABBIA









Tratto dal blog NELL’OCCHIO DEL PAVONE

ARTICOLO DI FRANCESCO FILIA

È tardi – è l’ora/ della cenere./ Origini e miserie/ disciolgono il bersaglio./ Assembrano/ elise presenze.// E’ tempo/ di subire il tempo. La bella silloge d’esordio di Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi (L’arcolaio, 2011) è un libro per frammenti, certo non una novità nel panorama poetico -se poi la poesia debba essere novità e nuova questo è tutto da discutere - ma qui il frammento non ha nulla di vago o di solamente lirico, ha la forza e la valenza di una scheggia che vuole e spesso riesce a rimanere conficcata nella sostanza dell’essere, nonostante l’immensa, l’immane frana dell’esistenza e della parola che tende disperatamente di dirla. Il frammento è la scheggia dell’io che prende parola e scopre il nulla che lo costituisce, la frazione, la sottrazione che la coscienza di sé comporta di fronte alla massiccia opacità dell’essere. E il viaggio destinale del dire poetico inizia dalle viscere (il tema del corpo è uno dei luoghi centrali del libro), dall'albore di ogni vita, dalle proprio ventre e da quello materno come indica la prima sezione Diatribe dal ventre. L’esistenza si presenta sin dall’origine -sconosciuta perché già da sempre prima di noi- come diatriba, lotta, polemos (Dimora negli intestini/ la terra franata dei nomi.// Là, dove nessuno sa.// Dove non c’è dove/ ogni cosa/ è radice d’abisso.//  Là fiorì il tuo nome.), ma anche come una dispersione, perché proviene da un dove in cui non c’è dove, da un silenzio che ci precede e che può offrirsi come intuizione o balbettio, mai come certezza salvifica. E qui si può cogliere anche un segreto rapporto dell’autore con alcune esperienze fondamentali del ‘900 poetico, come  Celan e soprattutto Mandel’stam, quasi riecheggiato in un frammento in particolare ( Ho sempre guardato, guardato,/dal nulla da cui vedo/ i corpi della soglia, laddove sono rimasto a fissarne/ la fissità inquieta/ d’un nulla. Invece in Mandel’stam  A tu per tu, il gelo io fisso:/ lui fissa il nulla ed io fisso dal nulla). In questo risalire alle fonti più estreme e limpide del novecento, Gabbia giunge alla soglia ultima di dove è giunta la poesia del secolo scorso: guardare le cose, il mondo, dal nulla, ecco questo è il grado zero raggiunto dal novecento come epoca e coscienza storica. Ma come ricostruire, riorganizzare un discorso che è sprofondato dall’altra parte del reale, in ciò che non è? E qui la poesia di Gabbia tenta una via – anche linguisticamente con  l’uso di parole  ricercate e desuete o con la dislocazione inusuale delle parole nel verso, che indica una volontà di reazione allo zero linguistico oltre che ontologico raggiunto dalla nostra epoca-  un sentiero che è quello della costruzione di una identità a partire dal frammento che siamo, come tessere di un puzzle che devono essere ricomposte, forse con la consapevolezza che ne mancherà sempre qualcuna, la definitiva che fa tornare i conti. Ma  una precaria, provvisoria articolazione del dire, per Gabbia, sembra possibile, proprio a partire da ciò che è diventato, forse per la sua precedente eccessiva sovresposizione, un tabù: l’io. E Io è anche il titolo dell’ultima sezione  dove emerge anche l’aspetto più originale dell’opera, ossia l’io non è solo un’identità, ma un luogo, un brano del nulla, una radura in cui si incontrano i vari elementi del mondo, in cui si accolgono le ombre, gli spettri che ci abitano (Io sarò voi-/ i morti, tutti,/ noi, voi/ dopo di me, quando/ solo, soffierò/ lo sguardo, da ciascuno/ di voi tutti/ su ognuno/ di me.), in cui si apre una relazione con la radice finita e mortale del nostro stare al mondo, che ci ricorda, nell’ascolto di un attimo, in un tempo senza tempo, che, se siamo veramente qualcosa, siamo non uno,  un semplice io irrelato, ma anche un tu e quindi tutti (Il battito della stanza/ coagulato, si fermava,/ ci assaliva, un tempo/ senza tempo, un ascolto/ in ascesa. Il rumore/ era un cerchio lontano. Tutto/era fermo, mentre tu, procedevi - / eri tutti). Da qui forse ripartire, o meglio,restare?
                                                                                                         Francesco Filia