venerdì 30 novembre 2012

LUCIANO BENINI SFORZA A CASA MELANDRI DI RAVENNA CON IL SUO "DOPO QUESTO INVERNO"

SABATO, 1 DICEMBRE 2012
Alle ore 18,00

a CASA MELANDRI di RAVENNA

Un incontro letterario organizzato da  RavennaPoesia


LUCIANO BENINI SFORZA e DANIELE SERAFINI

presentano i loro ultimi libri di versi

DOPO QUESTO INVERNO

E QUANDO ERAVAMO RE


INGRESSO LIBERO


 copyright
per Luciano Benini Sforza

giovedì 15 novembre 2012

IL PESO DEL CIAO OTTIENE CONSENSI ADDIRITTURA PRIMA DELL'IMMINENTE USCITA!!! FORMIDABILE FRANCESCO FORLANI!!



IL PESO DEL CIAO, di Francesco Forlani


novembre 15, 2012 letteratitudinenews  INTERVISTA DI MASSIMO MAUGERI


                                                                                                                                                                             
Discutiamo di poesia con Francesco Forlani, in occasione della pubblicazione della sua silloge intitolata “Il peso del Ciao” (edita da “L’arcolaio”)
- Partiamo da qui: cos’è la poesia per Francesco Forlani?
Quando a Paul Celan, nel 1960, fu dato il Premio Büchner. tenne un discorso dal titolo “II meridiano”, in cui il poeta si interroga sul significato della poesia. Si trova in un libro pubblicato da Einaudi e che considero un vademecum per chiunque si avvicini alla poesia, innanzitutto come lettore e poi come autore; si intitola La verità della poesia. A parte il concetto guida, quello proprio del meridiano che pur non essendo un luogo, è indispensabile per tracciare una vera e propria cartografia dell’anima, il luogo per eccellenza della poesia, il deposito dei sogni, quello che mi aveva colpito di più era il fatto che tutto il suo discorso fosse punteggiato in almeno una ventina di passaggi da espressioni come forse, può darsi, credo, ma qui vado a memoria. Quel tentennamento svelava la propria inadeguatezza ma insieme l’inadeguatezza di qualsiasi punto di vista assertivo, insomma di un pensiero che dica una volta e per tutte: ecco la poesia è questo. Se dovessi usare un’immagine certamente utilizzerei quella che un amico ancor più che poeta stimatissimo, Petr Král mi diede un giorno in un bistrot a Parigi per raccontarmi la sua esperienza dell’esilio. Profugo come Milan Kundera, Věra Linhartová, dalla Praga assediata dai russi alla fine degli anni Sessanta, mi raccontò del giorno che poté fare ritorno nel suo paese. Qualche tempo dopo la rivoluzione di velluto era tornato in città e l’aveva ricartografata rifacendo gli itinerari della passata giovinezza. “Era come se seguissi le mie stesse orme, visibili sul selciato. Però quando vi appoggiavo il piede, quasi per via della polvere accumulata in tutto quel periodo di assenza, il passo scartava leggermente di lato.” mi raccontò. Ecco, per me la poesia, è il racconto di quello scarto, di questo scivolamento leggero, a volte perfino comico che di colpo crea uno spazio supplementare a metà tra l’esperienza originaria e il ricordo, la memoria poetica che ti fa rivivere quell’esperienza.
- Vivi tra l’Italia e la Francia? Che ruolo ha la poesia nell’ambito dei due sistemi culturali nazionali? Quali, a tuo avviso, le analogie e le differenze?

Qualche tempo fa un amico con piglio ironico e assai lucido mi confessò che non capiva quanti mettessero come me nella propria nota biografica, vive tra una città e un’altra: Che significa? Aveva ragione e così gli risposi, ironicamente, che vivere tra la Francia e l’Italia può significare due cose, o Modane o Bardonecchia, a seconda che si sia più in un territorio e in una lingua, o in un’altro. Vivo a Torino dopo aver vissuto per quasi vent’anni a Parigi. Come se non bastasse l’ibridazione meridionale a nord, aggiungerei che insegno filosofia, in francese, al Liceo francese Jean Giono. Questa sospensione territoriale e linguistica significa avere un punto di vista privilegiato sui due paesaggi. Tra l’Italia e la Francia ultimamente, per fortuna, grazie al lavoro importante svolto da poeti e traduttori come Andrea Inglese e Andrea Raos, o case editrici come La Camera verde di Andrea Semerano con gli instancabili Marco Giovenale, Michele Zaffarano, è stato fatto un lavoro importante di reciprocità con la poesia francese. Se dovessi suggerire due esperienze per segnare la differenza tra i due paesi potrei limitarmi a due considerazioni: la prima è la presenza in ogni libreria francese di una sezione importante dedicata alla poesia, cosa che devo dire non è affatto scontato in Italia. L’altra è la manifestazione ormai giunta alla 31a edizione del Marché de la Poésie il cui presidente è Serge Pey, un poeta performer che letteralmente adoro. Fermiamoci un attimo proprio sulla dicitura, mercato della poesia, ovvero quanto di più paradossale si possa dire per un genere considerato come una cenerentola delle lettere. Se a questo si aggiunge che molti romanzieri, dunque anche nella narrativa, si vedono rifiutare lavori di grande qualità per la ragione accampata da molti editori, di non mercato, capisci subito la differenza tra un paese con cultura e comunità letteraria, la Francia, e un paese come il nostro dove più che di comunità si dovrebbe parlare di cooperative. In Italia mi sentirei di segnalare il bellissimo lavoro della Casa della Poesia di Sergio Iagulli e consorte a Baronissi con un archivio sonoro e multimediale veramente importante per la poesia contemporanea, per non parlare dei festival, dei premi che si organizzano nei due paesi. A tale proposito vale la pena segnalare il bell’intervento di Lello Voce sulle nuove forme della poesia in Italia, intervistato da Andrea Inglese. Sicuramente un contributo importante in Italia alla poesia lo hanno dato i blog e penso a Francesco Marotta a Poetarum Silva animato tra gli altri da Natalia Castaldi, alla Poesia e lo spirito con l’eroico Fabrizio Centofanti e il poeta che mi è molto caro Carmine Vitale e a tantissimi e tantissime che si fanno un culo pazzesco ottenendo dei risultati in termini di critica e diffusione davvero importanti.
- Come nasce questa tua silloge intitolata “Il peso del Ciao”?
Come sai la mia attività letteraria è principalmente narrativa e rivistaiola. In questi anni ho lavorato soprattutto con Camera verde per dei libri che sono scritture un po’ fuori dalle facili classificazioni ma sicuramente con una matrice poetica, sperimentale, di cui sono molto fiero. Un libro di poesie diciamo più semplicemente di poesie non lo pubblicavo dalla fine degli anni ottanta. Si intitolava ?dove finisce il mare, pubblicato in un volumetto edito da Il delfino di Napoli con una prefazione di un mio coetaneo, avevamo vent’anni, Giancarlo Alfano diventato un eccellente critico, sicuramente con Andrea Cortellessa tra i più “attrezzati” in Italia. Era passato un tempo ragionevole, diciamo che la polvere accumulata sulle orme giovanili rischiava di cancellare ogni traccia, per riprendere l’immagine usata all’inizio della nostra intervista. Così ho raccolto tutte le poesie d’amore scritte in questi anni articolandole in diverse sezioni. Si tratta di poesie in alcuni casi antologizzate, in altri pubblicate su riviste, alcune tradotte in altre lingue fino ad arrivare alle ultime pubblicate su facebook.
- Su facebook?
Sì, si tratta delle due sezioni, Poesie Dora Markus, sulle gambe di una sconosciuta e Poesie della TIM (per una ricarica telefonica). Nl primo caso come ho scritto. è un esperimento omaggio a Eugenio Montale e soprattutto alla sua amicizia con Bobi Bazlen che in un biglietto datato 25 settembre 1928 scrive: «Gerti e Carlo: bene. A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus».
Dalla fotografia allegata Eugenio Montale ne trasse una delle sue più belle poesie. Così avevo chiesto a chiunque di fare lo stesso e dalle fotografie inviate, compresa una con le gambe di un tavolo, ha avuto origine questa sezione.
Nell’altro risalgono a quest’estate. Ero a Parigi e, come spesso capita quando si è all’estero, ero rimasto senza credito telefonico. Quando si è all’estero se non si ha credito sul telefono si è invisibili ovvero non in grado nemmeno di ricevere le telefonate. Così invece di chiedere come al solito a mio fratello Thèo di provvedere alla cosa ho lanciato un SOS ricarica su FB offrendo in cambio di una ricarica di 10 euro una poesia. Così nel giro di un’ora tre magnifiche lettrici avevano accolto il mercato.
- Perché questo titolo?
http://letteratitudinenews.files.wordpress.com/2012/11/francesco-forlani-2.jpg?w=143&h=190Il titolo è arrivato per caso, in quei fortunati casi in cui a una parola segue immediatamente un’immagine. Avevo da poco tracciato un bilancio della mia vita affettiva e sperimentato quello scarto, la caduta di cui ti ho detto prima. Il Ciao era un simbolo della nostra infanzia adolescenza, un ciclomotore assolutamente inaffidabile, rosso fiammeggiante il cui peso da fermo si annullava in velocità al punto di farne un mezzo assai pericoloso per la sua leggerezza. La raccolta è la mia personale cartografia all’interno di quella che un amico poeta Massimo Rizzante, definiva l’essere sospesi tra “l’etica della distanza ed estetica dell’abbandono”. Poi devo dire che l’entrata in scena di Gianfranco Fabbri dell’Arcolaio è stata fondamentale. Davvero un editore in gamba e con un vero progetto editoriale alle spalle.
- Cosa diresti ai giovani che non hanno mai avuto modo di assaporare versi (al di là, magari, delle esperienze scolastiche, talvolta “coercitive”) per farli innamorare della poesia?
recentemente con Francesca Tini Brunozzi e insieme ad altri poeti ho partecipato alla realizzazione della serata DIALOGHI FRA POESIA E MULTIMEDIALITÀ, che si è tenuta venerdì 19 ottobre 2012 all’Archivio di Stato di Novara, una collaborazione fra il Liceo Artistico Statale Casorati di Novara e la Casa della Poesia di Vercelli. Ho scritto per loro una lettera come scritta dal giovane poeta di risposta a Rilke e alla sua celebre lettera a un giovane poeta. Il mio non più giovane poeta un po’ come Celan ribadiva tutta la propria inadeguatezza pur avendo seguito alla lettera i consigli del maestro nel potere asserire quanto e come la sua poesia fosse buona. E per questo ci sono i lettori, gli unici che possono davvero comunicarti se è valsa la pena
* * *
Francesco Forlani è nato a Caserta nel 1967 e vive tra Parigi e Torino. Ha collaborato e collabora a riviste come Baldus (Milano), Atelier du Roman (Parigi), News from the Republic of letters (Boston), Reportage, Corriere Nazionale, e attualmente dirige la rivista letteraria Sud. È presente in rete come redattore del più importante blog letterario italiano: Nazione Indiana Ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano, fra cui Métromorphoses (Ed. Nicolas Philippe, 2002), Il manifesto del comunista dandy (Blu di Prussia-Edizioni La Camera Verde, 2007), Autoreverse (Edizioni Ancora del Mediterraneo, 2008), Chat noir (disegni di Raffaella Nappo; Manhattan Experiment, 2010). Traduttore dal francese, di diversi autori fra cui Fernando Arrabal, Lakis Proguidis, François Taillandier, Philippe Muray, Louis Ferdinand Cèline, Blaise Cendrars, ha tradotto e pubblicato con Alessandra Mosca, L’insegnamento dell’ignoranza, di Jean-Claude Michèa (Edizioni Metauro, 2005). Ha portato in scena (Torino, Milano, Bologna, Napoli, Caserta, Lerici) l’operetta Patrioska e Cave canem. Ha da poco pubblicato per Lite-editions il racconto erotico, Il compasso, e con la casa editrice L’Arcolaio, Il libro di poesie “Il peso del Ciao”.
A Febbraio 2013 uscirà per Laterza nella collana Contromano il romanzo Parigi senza passare dal via.
Conduttore insieme a Marco Fedele del programma radiofonico Cocina Clandestina, fa parte della nazionale scrittori Osvaldo Soriano Football Club (maglia numero 16) di cui è uscita nel giugno 2010 l’antologia Era l’anno dei mondiali (Rizzoli-Corriere della Sera).

mercoledì 24 ottobre 2012

GIACOMO CERRAI RECENSISCE "LA TERRA FRANATA DEI NOMI" DI GABRIELE GABBIA - ARTICOLO TRATTO DAL BLOG "IMPERFETTA ELLISSE"






GIACOMO CERRAI RIFLETTE SU "LA TERRA FRANATA DEI NOMI" DI GABRIELE GABBIA

ARTICOLO TRATTO DAL BLOG IMPERFETTA ELLISSE - OTTOBRE 2012



Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi una campionatura, un significato che vada al di là della mera testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione, spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea, un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine - magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività del tutto peculiare.
Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,  L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso titolo. La prima impressione che intanto ne  derivo è come di uno scaldarsi i muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile). In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca - anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata - nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si palesa) c'è quindi il nulla.
"Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca un giovane a un  "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla (anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore. Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua, ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica, l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti, lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni), come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la  coscienza ha dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli. Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace, talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io  disperso, esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate sulle pareti della caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è solo per quei nomi che è stato possibile salvare.

GIACOMO CERRAI



giovedì 11 ottobre 2012

ROBERTO CARACCI RIFLETTE SUL LIBRO DI MARINA MASSENZ. "LA BALLATA DELLE PAROLE VANE"






     La zattera danzante delle passioni
di Roberto Caracci



La ballata delle parole vane è la ballata delle parole che non restano. In particolare quelle dell’amore. Resta la ballata, sì, resta il canto, la danza, il ritmo della vita, che anche e soprattutto di amore è fatta. E del resto qui non si parla di amore, ma di amori. Di amore al plurale. Di passione in cui una donna può credere, ma nelle sue mille sfaccettature, tante quanti sono ad esempio gli uomini.
L’aleatorietà degli amori è proporzionale all’intensità della loro esperienza vissuta, della loro fatale contingenza, dove l’immersione senza difese e senza tutele minaccia quel dolore che solo la distanza -lo insegna l’esperienza- può esorcizzare, spiegare e poi prevenire. L’oscillazione vertiginosa è questa, tra l’abbandono dell’anima nuda, spensierata e vulnerabile, e il ricorso alla sicurezza di mura difensive, che non ci lascino più combattere aspre battaglie in campo aperto. Mura fragili, comunque, diafane e permeabili, più un proposito velleitario di vita che una certezza, più un ideale regolativo che una garanzia.
Ma c’è qualche altra cosa che, oltre alla distanza, garantisce le mille elaborazioni del lutto degli amori: l’ironia. E allora l’oscillazione diventa quella tra l’approccio sofferto, tragico, depressivo al fallimento amoroso e l’ironica distanza di chi può farne poesia, canto, ballata. L’ossimoro è tutto qui: la giocosità del canto unita alla coscienza della vanità di quanto nel canto viene raccontato. In fondo è la stessa poesia che libera nel canto, che raccoglie l’esperienza, e non potendole fornire un senso definito, compiuto, scioglie l’insensatezza del vissuto nel ritmo della ballata.
E Marina Massenz ha un raffinato gusto del ritmo, della prosodia e della cadenza, anche quando- con una sottilissima arguzia psicologica (nel testo intitolato proprio La ballata delle parole vane)- ironizza sulla propria vocazione poligamica (Sono una donna/dai molti mariti) ed elenca una sorta di bestiario maschile, una tipologia di uomini dallo spirito animale: il veloce uomo anguilla, che si gonfia e si sgonfia/in un batter d’occhio, l’uomo falco che cade in picchiata/ par che si schianti, l’uomo polpo con molte braccia/e poco cervello, l’uomo-murena, che predilige lo stare in agguato, l’uomo-cernia, che ammicca, suggerisce/scodinzola e poi sparisce. Un pluri-ritratto zoomorfico alla Saba, rovesciato dall punto di vista femminile, dove la satira è bonaria e insieme pungente. Voi capirete ora certamente/perchè così tanti ne debba avere.
La Massenz ci racconta dunque di amori accesi e svaporanti, di viaggi del cuore a due dove la meta non è sicura, e neanche la condizione del viaggio; dove il letto stesso diventa una zattera per probabili naufragi, o per maturare la consapevolezza che un solo letto per due è troppo piccolo.
Ci racconta di burrasche di coppia (Ti vorrei far nero, pesto di pugni/ per ridurti in poltiglia…), di minacce di donna insicura finite in risa (Vedrai i miei canini/ allungarsi in zanne…), di cene in solitudine dove si rimugina l’inutile rappresaglia (Stasera ho a cena/Orgoglio, Umiliazione e Rancore). E dunque di tante parole vane dette o pensate per giustificare in qualche modo gli assurdi labirinti delle esperienze sentimentali. Ma poiché, come si diceva, una giustificazione vera non c’è, resta la trasformazione di questi frammenti di esperienza, felice e dolorosa, in una danza centrifuga e centripeta, che è il ritmo di una ballata scanzonata, dove la saggezza si identifica con una sorta di elogio della follia del vivere.
Talvolta, come nella lirica Incontri unilaterali, ci si incrocia senza riconoscersi, uniti in questa spaesante unilateralità dell’anonimia, dell’alienazione reciproca, della reciproca ignoranza. Nelle vicissitudini e negli ondeggiamenti delle passioni di coppia, dove -come direbbe Catullo- non esistono leggi né patti, le stesse maree d’amore/sono ingannevoli per definizione- scrive la Massenz nella bella lirica Luna chimera -Senza dubbio mutevoli/ con pelliccia di volpe.
Si succedono nel volume piccoli spietati ritratti di uomini-amanti dalla mimica animale, quello dal volto grifagno che sopporta/le effusioni della donna al mattino, le sue fusa di gatto domestico (Grifagno); quello che abbracciando comprime in spire di boa, e finge di dormire osservando lei con occhio liquido e freddo (Stritolamenti); quello dagli occhi come animali che guizzano e poi scompaiono.
Poi, fra una configurazione zoologica e l’altra, le tregue dell’amore, della passione, ma anche del rimpianto, della supplica, della richiesta di spiegazione: (Spiegami amore, finchè/ancora posso chiamarti così…). E nella struggente Istantanee con flash, la voce lirica si paragona a una farfalla notturna, falena sbatacchiante nel buio, presa nella nebbia di Milano da una nera stanchezza. Spesso qui l’uomo figura come l’assente, o meglio come colui che si allontana. Resta nella donna una memoria del corpo che la fa vibrare come in un tango, che tambureggia il proprio ritmo nel cuore di lei lungo le vie della città (vedi la splendida poesia Tango). E così lei diventa una affannata spia delle tracce lasciate da lui seminate.

A balzi mi affaccio in sospetto
di imminente informazione, ma
nessun bisogno di ulteriore affetto,
garantita adeguata organizzazione.
(Come un affanno)


Dove ancora una volta l’oscillazione è tra lo sprofondamento nella passione che non dura e l’istanza di una distacco ironico, a autoironico, che la poesia -anche quella della parole vane- può garantire. La lapidaria chiusa di questa ultima lirica è tanto amara quanto intrisa di consapevolezza. E’ la consapevolezza della necessità di conservare l’unità dell’io, malgrado la molteplicità dei fuochi fatui delle passioni e di chi le accende. Del resto, non aveva detto la poetessa nella prima sezione del libro di essere pronta a raccogliere in un gran fascio la molteplicità dei colori della vita, delle contrade e degli stessi uomini con cui quei percorsi erano stati compiti? La poesia, come ballata, ha come compito proprio quello di ‘raccogliere‘ nel suo legein la caotica molteplicità dell’esperienza, e farne danza, ritmo.
E’ un ritmo a cui la Massenz ama lasciarsi andare, con un pizzico di virtuosismo musicale, timbrico e fonetico- rime interne, anafore, paronomasie- che regala al lettore una trasognata piacevolezza di lettura.

Nella terza sezione del libro, Le capriole del ‘noi siamo’, le lacerazioni delle prime parti paiono ritrovare una loro sutura, una riconciliazione. Intanto viene a galla la dolcezza del ricordo, che investe giorni e notti di amori veramente vissuti, pur nella loro transitorietà. (Ci siamo uniti molte volte nell’acqua… Mi resta un guizzo/lo ricordo nel corpo… Facevamo all’amore solo con le mani/ come ciglia vibratili…)

In questa ballata di parole vane e di esperienze che non lasciano tracce se non sotto forma di ritmo e ballata del vivere (e del verso), traluce ora una sorta di accettazione sapiente, controllata, del baccanale dell’esistenza.

Sedotta, consegnare e recedere;
abbandonata all’abisso in cadute
mozzafiato affronto il baccanale,
solida sbornia di specie carnale…


Ma tutto questo senza dimenticare quella striscia sottile d’ironia con cui è necessario affrontare le acrobazie dello stare in due.

Ma se deponi le lance e i moti dissuasivi
percorrere forse possiamo
quella striscia sottile d’ironia
le capriole del ‘
noi siamo‘.


Una proposta di tregua, forse, o di spontanea accettazione a due di un vissuto che ci vede tutti coinvolti in un pazzo sabba di sentimenti e insieme selvatica voglia di libertà. Dove l’uomo può anche sollevarsi da uno dei tanti letti della vita come un cacciatore che punti l’arma contro la sua preda, ma diritto della donna è poter sottrarsi a tutto questo, e fuggir via dall’ennesimo letto o dall’ennesimo fucile di uomo come un cervo che non si fa impallinare.

Ma quando invece ti sollevi cacciatore
e punti il cervo, il suo palco mal celato tra
le foglie, allora abbassa l’arma e lasciami
fuggire; guarda come corro, verdi balzi
in ogni direzione, elastici appoggi…
ho una mia grazia selvatica!
(Lisciami)


Nel meraviglioso viaggio ad ostacoli di un percorso di coppia, molto si gioca una donna. Ma bisogna a un certo punto anche sentirsi liberi da quelle stesse regole che hanno dato un ordine a quel gioco, a quel viaggio. Perché è già difficile dire a se stessi, nei vari bilanci della vita, io sono. Molto più complicato, evidentemente, è provare a vincere la difficile, ambiziosa scommessa, anche quella infiammata dall’amore, del noi siamo.
ROBERTO CARACCI