La ballata delle parole vane è la ballata delle parole che non restano. In particolare quelle dell’amore. Resta la ballata, sì, resta il canto, la danza, il ritmo della vita, che anche e soprattutto di amore è fatta. E del resto qui non si parla di amore, ma di amori. Di amore al plurale. Di passione in cui una donna può credere, ma nelle sue mille sfaccettature, tante quanti sono ad esempio gli uomini.
L’aleatorietà
degli amori è proporzionale all’intensità della loro esperienza vissuta, della
loro fatale contingenza, dove l’immersione senza difese e senza tutele minaccia
quel dolore che solo la distanza -lo insegna l’esperienza- può esorcizzare,
spiegare e poi prevenire. L’oscillazione vertiginosa è questa, tra l’abbandono
dell’anima nuda, spensierata e vulnerabile, e il ricorso alla sicurezza di mura
difensive, che non ci lascino più combattere aspre battaglie in campo aperto.
Mura fragili, comunque, diafane e permeabili, più un proposito velleitario di
vita che una certezza, più un ideale regolativo che una garanzia.
Ma
c’è qualche altra cosa che, oltre alla distanza, garantisce le mille
elaborazioni del lutto degli amori: l’ironia. E allora l’oscillazione diventa
quella tra l’approccio sofferto, tragico, depressivo al fallimento amoroso e
l’ironica distanza di chi può farne poesia, canto, ballata. L’ossimoro è tutto
qui: la giocosità del canto unita alla coscienza della vanità di quanto nel
canto viene raccontato. In fondo è la stessa poesia che libera nel canto, che
raccoglie l’esperienza, e non potendole fornire un senso definito, compiuto,
scioglie l’insensatezza del vissuto nel ritmo della ballata.
E
Marina Massenz ha un raffinato gusto del ritmo, della prosodia e della cadenza,
anche quando- con una sottilissima arguzia psicologica (nel testo intitolato
proprio La ballata delle
parole vane)- ironizza sulla propria vocazione poligamica (Sono una donna/dai molti mariti)
ed elenca una sorta di bestiario maschile, una tipologia di uomini dallo
spirito animale: il veloce uomo anguilla, che si gonfia e si sgonfia/in un batter d’occhio,
l’uomo falco che cade in
picchiata/ par che si schianti, l’uomo polpo con molte braccia/e poco cervello,
l’uomo-murena, che predilige lo stare
in agguato, l’uomo-cernia, che ammicca,
suggerisce/scodinzola e poi sparisce. Un pluri-ritratto zoomorfico
alla Saba, rovesciato dall punto di vista femminile, dove la satira è bonaria e
insieme pungente. Voi capirete
ora certamente/perchè così tanti ne debba avere.
La
Massenz ci racconta dunque di amori accesi e svaporanti, di viaggi del cuore a
due dove la meta non è sicura, e neanche la condizione del viaggio; dove il
letto stesso diventa una zattera per probabili naufragi, o per maturare la
consapevolezza che un solo letto per due è troppo piccolo.
Ci
racconta di burrasche di coppia (Ti
vorrei far nero, pesto di pugni/ per ridurti in poltiglia…), di
minacce di donna insicura finite in risa (Vedrai
i miei canini/ allungarsi in zanne…), di cene in solitudine dove si
rimugina l’inutile rappresaglia
(Stasera ho a cena/Orgoglio, Umiliazione e Rancore). E dunque di
tante parole vane dette o pensate per giustificare in qualche modo gli assurdi
labirinti delle esperienze sentimentali. Ma poiché, come si diceva, una
giustificazione vera non c’è, resta la trasformazione di questi frammenti di
esperienza, felice e dolorosa, in una danza centrifuga e centripeta, che è il
ritmo di una ballata scanzonata, dove la saggezza si identifica con una sorta
di elogio della follia del vivere.
Talvolta,
come nella lirica Incontri
unilaterali, ci si incrocia senza riconoscersi, uniti in questa
spaesante unilateralità dell’anonimia, dell’alienazione reciproca, della reciproca
ignoranza. Nelle vicissitudini e negli ondeggiamenti delle passioni di coppia,
dove -come direbbe Catullo- non esistono leggi né patti, le stesse maree d’amore/sono ingannevoli per
definizione- scrive la Massenz nella bella lirica Luna chimera -Senza dubbio mutevoli/ con pelliccia di
volpe.
Si
succedono nel volume piccoli spietati ritratti di uomini-amanti dalla mimica
animale, quello dal volto grifagno che sopporta/le
effusioni della donna al mattino, le sue fusa di gatto domestico (Grifagno); quello che
abbracciando comprime in spire
di boa, e finge di dormire osservando lei con occhio liquido e freddo (Stritolamenti); quello dagli
occhi come animali che guizzano
e poi scompaiono.
Poi,
fra una configurazione zoologica e l’altra, le tregue dell’amore, della
passione, ma anche del rimpianto, della supplica, della richiesta di
spiegazione: (Spiegami amore,
finchè/ancora posso chiamarti così…). E nella struggente Istantanee con flash, la
voce lirica si paragona a una farfalla notturna, falena sbatacchiante nel buio, presa nella
nebbia di Milano da una nera
stanchezza. Spesso qui l’uomo figura come l’assente, o meglio come
colui che si allontana.
Resta nella donna una memoria del corpo che la fa vibrare come in un tango, che
tambureggia il proprio ritmo nel cuore di lei lungo le vie della città (vedi la
splendida poesia Tango).
E così lei diventa una affannata spia delle tracce lasciate da lui seminate.
A balzi mi affaccio in sospetto
di imminente informazione, ma
nessun bisogno di ulteriore affetto,
garantita adeguata organizzazione. (Come un affanno)
Dove ancora una volta l’oscillazione è tra lo sprofondamento nella passione che non dura e l’istanza di una distacco ironico, a autoironico, che la poesia -anche quella della parole vane- può garantire. La lapidaria chiusa di questa ultima lirica è tanto amara quanto intrisa di consapevolezza. E’ la consapevolezza della necessità di conservare l’unità dell’io, malgrado la molteplicità dei fuochi fatui delle passioni e di chi le accende. Del resto, non aveva detto la poetessa nella prima sezione del libro di essere pronta a raccogliere in un gran fascio la molteplicità dei colori della vita, delle contrade e degli stessi uomini con cui quei percorsi erano stati compiti? La poesia, come ballata, ha come compito proprio quello di ‘raccogliere‘ nel suo legein la caotica molteplicità dell’esperienza, e farne danza, ritmo.
E’
un ritmo a cui la Massenz ama lasciarsi andare, con un pizzico di virtuosismo
musicale, timbrico e fonetico- rime interne, anafore, paronomasie- che regala
al lettore una trasognata piacevolezza di lettura.
Nella terza sezione del libro, Le capriole del ‘noi siamo’, le lacerazioni delle prime parti paiono ritrovare una loro sutura, una riconciliazione. Intanto viene a galla la dolcezza del ricordo, che investe giorni e notti di amori veramente vissuti, pur nella loro transitorietà. (Ci siamo uniti molte volte nell’acqua… Mi resta un guizzo/lo ricordo nel corpo… Facevamo all’amore solo con le mani/ come ciglia vibratili…)
In questa ballata di parole vane e di esperienze che non lasciano tracce se non sotto forma di ritmo e ballata del vivere (e del verso), traluce ora una sorta di accettazione sapiente, controllata, del baccanale dell’esistenza.
Sedotta, consegnare e recedere;
abbandonata all’abisso in cadute
mozzafiato affronto il baccanale,
solida sbornia di specie carnale…
Ma tutto questo senza dimenticare quella striscia sottile d’ironia con cui è necessario affrontare le acrobazie dello stare in due.
Ma se deponi le lance e i moti dissuasivi
percorrere forse possiamo
quella striscia sottile d’ironia
le capriole del ‘noi siamo‘.
Una proposta di tregua, forse,
o di spontanea accettazione a due di un vissuto che ci vede tutti coinvolti in
un pazzo sabba di sentimenti e insieme selvatica voglia di libertà. Dove l’uomo
può anche sollevarsi da uno dei tanti letti della vita come un cacciatore che
punti l’arma contro la sua preda, ma diritto della donna è poter sottrarsi a
tutto questo, e fuggir via dall’ennesimo letto o dall’ennesimo fucile di uomo
come un cervo che non si fa impallinare.
Ma quando invece ti sollevi cacciatore
e punti il cervo, il suo palco mal celato tra
le foglie, allora abbassa l’arma e lasciami
fuggire; guarda come corro, verdi balzi
in ogni direzione, elastici appoggi…
ho una mia grazia selvatica! (Lisciami)
Nel meraviglioso viaggio ad ostacoli di un percorso di coppia, molto si gioca una donna. Ma bisogna a un certo punto anche sentirsi liberi da quelle stesse regole che hanno dato un ordine a quel gioco, a quel viaggio. Perché è già difficile dire a se stessi, nei vari bilanci della vita, io sono. Molto più complicato, evidentemente, è provare a vincere la difficile, ambiziosa scommessa, anche quella infiammata dall’amore, del noi siamo.
ROBERTO CARACCI
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