(Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi,
L’Arcolaio, Forlì, 2011).
L’Arcolaio, Forlì, 2011).
Gabbia arriva alla sua prima silloge dopo avere pubblicato
diversi testi su varie riviste e antologie.
La sua terra franata cerca
le proprie identità – anche quando stanno e vivono in un contrasto, in tempi
non sempre vicini e leggibili – arginando sovrapposizioni e dissonanze. Un
processo che non trova mai fine e riposo.
Una ricerca continua che troviamo anche nelle struttura dei
testi in cui il carattere normale è alternato al corsivo e crea successioni di
significato: «Questo volgere all’interno/
questo esserne, preme/ eccede aggetta/ l’esterno in cui giace –/ l’eterno in cui giaci» (p. 47); «Nello
spazio condiviso/ essere solo/ spazio essente, condiviso)/ in sé: nell’ascesa dell’ombra/ l’atteso
incontro –/ quando sei te» (p.75).
Questi strati avvicendati disegnano piani esistenziali di passaggio: verità momentanee che smuovono l’interiorità
soggettiva e l’esteriorità visibile a tutti in ogni situazione.
I versi testimoniano tempi di decadenza e di sofferenza;
mancano testimonianze capaci di rendere il vissuto dimostrazione dal peso
storico, generativo di conoscenza. Non esistono riferimenti a situazioni e
spazi di racconto: la sensazione è emozione che non nasconde i gemiti di
afflizione e le brevi sopportazioni. L’esistenza è un’inesorabile mondo di colori contrastanti
che non danno e non hanno più radici. Privano le persone della parte serena e
semplice, sin dai primi anni di vita. Conducono verso un itinerario di ostacoli
e ingombranti verità, in cui l’essere annulla
se stesso annullando gli altri:
«Ho
sempre guardato, guardato,/ dal nulla da cui vedo/ i corpi della
soglia,/ laddove sono rimasto/ a fissarne/ la fissità inquieta/ d’un
nulla» (p. 34); «Ascoltare il
vuoto che ci abita/ nel silenzio che assedia il mattino/ ritrovando
stanche membra/ nella tregua che contiene le strade/ gli odori,
l’occhio che s’affaccia/ e insegue fra i vetri vapori, o il gelo/ ch’è fra noi e il
cielo/ – primo pianto d’inverno –/ forse l’alba, d'un ultimo giorno» (p.
27). L’uomo fatica a riconoscere se stesso: abita in maniera convulsa i propri
mondi e spesso li cambia fino a deformarli. L’uomo non capisce più i propri
orizzonti vitali. Dialogo e conoscenza si autoeliminano e lasciano spazio a
contraddizioni di senso che anticipano un punto di non ritorno e, quindi, permangono – pur in divenire – sempre
false ripartenze.
Un panorama tanto difficile da vivere o ricostruire con
altre forze o semine. Si arriva ad un probabile dolore, graduale eliminazione
di forze fisiche o psichiche. Una solitudine quasi statica che lascia pochi
barlumi di libertà d’azione e di speranza: «Vedo
spalle nei tuoi passi/ e la morte della mente/ avvicinarsi. Questa/ cesura da te non consola/
semmai ricama, dispiega/occulta, l’ordire dei giorni» (p. 56); «È tardi – è l’ora/ della cenere./ Origini
e miserie/ disciolgono il bersaglio./ Assembrano/ elise presenze./ È tempo/ di subire tempo» (p.
61).
Non bastano le parole per ricavare nuovi silenzi di pensiero
e nuove progettualità d’azione e aspettative. Si sta quasi vinti dal tutto
perché padroni di niente. Anche per questo l’indagine finale dell’io risulta un’introspezione che ritorna
su doppiezze e controverse azioni. Una fotografia che accomuna tutto e tutti in
un’avvolgente cornice di destino e parole: «Se
mi guardo guardarti/ – se mi vedo –/ immagine e somiglianza/ in te di me/
mi plasma su te/ la grazia evidente/ – l’interiorità latente –/
l’improvvido arcano/ – tacito – in noi» (p. 84).
Non ci sono piani su cui reggersi e la dinamica avversa
dell’essere scava il destino verso
ombre che non lasciano altro scampo. Non ci si riconosce più: l’io è dissolto nei tanti dilemmi e
affonda nell’oscurità senza più anelare desiderio, speranza, felicità. La terra frana e perde sostanza e forma:
non è più possibile nemmeno sperare e cercare di capire quali potrebbero essere
le possibili strade,anche solo di sogno riposto o volutamente remoto.
È un arco di vita, quello che disegna Gabbia. Sospeso tra il
privato e il pubblico, tra l’esistente e il resistente, tra la vita e l’abisso.
Legami personali e collettivi che rimangono confusi e riflettono dentro gli
specchi del nostro vissuto e del nostro sentire.
Ci fermiamo a guardare ancora e a sperare. Ma rimaniamo con
l’inesorabile terra che si muove e lascia che tutto frani dentro di noi e
attorno a noi. «Talvolta ti atterra il
corpo addosso/ ed è il cupo gorgoglio di un verbo/ mentre si vaga, per
ossessioni, per/ stordimenti – per storni. Il corpo –/ un ceppo
– si allontana dallo sguardo/ – suo epicentro, suo traguardo – nel
candore/ stridulo delle cose, ove niente/ impedisce la resa, la dipartita, ove
la voce/ si ascolta una volta sola, mentre tutto/ non torna – è molto
diverso – ricomincia» (p. 23).
Gianluca Bocchinfuso