mercoledì 17 luglio 2013

GIACOMO CERRAI RECENSISCE "L'OCCHIO E IL MIRINO" DI FOSCA MASSUCCO








Fosca Massucco - L'occhio e il mirino - Ed. L'arcolaio 2013


Articolo di Giacomo Cerrai, tratto dal suo blog Imperfetta ellisse
Di primo acchito questa raccolta di Fosca Massucco dà l'impressione di potervi rinvenire una buona dose di crepuscolarismo, a partire da una vena gozzaniana che a me pare persistente in molta poesia attuale, per quanto qui ampiamente modernizzata e con meno ironia. C'è altro naturalmente, ma vediamo per ora di partire da qui. E cioè dal fatto, per me indubitabile, che le "piccole cose" abbiano un ruolo centrale in questa raccolta e nella poetica dell'autrice, piccole cose o eventi o fenomeni o la ricerca e la cura di "apparizioni" della natura solo in prima istanza minimali. Che queste "piccole cose", intese in senso generale, poi possano essere di conforto o di inquietudine o riflessione (meglio diremmo meditazione, per ragioni che vedremo) è in ragione della volontà di Fosca di farsene investire e riempire o viceversa di dominarle intellettualmente. Non uso a caso il termine "volontà" poichè a me sembra che  talvolta ci sia, in questi testi, un intento a ricercare il momento, l'occasione, la scintilla emotiva o perfino un satori, un'illuminazione. Nessuna occasione montaliana, per intenderci, semmai la ricerca di una epifania, di una agnizione. Con una certa avidità, direi, che però è avidità di vita, spasmo della poesia, quando si manifesta, all'interno di essa. E questa ricerca, se non modulata, può portare alla costruzione del momento illuminante, come ad esempio in questa breve poesia che richiama il "Campo di grano" di Van Gogh, testo in cui - cosa a cui alludevo prima - è l'intelletto (la cultura) a dettare il verso e anche, in modo non secondario, la forma, con quella cesura a contrasto rinvenibile in tanta poesia giapponese:
Il genio dell’uomo è foggiare
rotonde balle di fieno
immote in una laguna
d’erba disseccata.

La perfezione di dio
è disporre sopra due corvi.
L'occhio e il mirino non sono che due facce della stessa medaglia, anzi meglio, della stessa identità, secondo una vulgata tipicamente orientalista, come la freccia e il bersaglio nel noto libretto di Eugene Herrigel. La poesia da cui il titolo proviene afferma appunto "Così sono io, l’occhio e il mirino", ma avverte anche che "l’occhio è un mirino, a fissarlo [l'arcobaleno] non lo scorge". C'è quindi, in questi due versi, tutta la coscienza proprio di ciò a cui accennavo prima, del limite cioè della poesia come atto creativo volitivo, della necessità altresì che l'io si defili o si fonda, anneghi, nella scrittura, senza "fissazioni".
La ricerca, in questa silloge, è sul piccolo, la voglia è di scoprire la meraviglia in un petalo, il senso in un alito di vento. Tanto spesso ci imbattiamo in questi testi in "oggetti poetici" come un pruno soave, una vespa, una rosa, una lumaca, il fuoco nel camino, fiori nel giardino, formiche, corvi, sere agostane, mandorli, bossi, ginestre, colline. Ma qui è singolare notare come tutte queste cose non siano più gli antichi simboli della tradizione occidentale, ma oggetti che devono essere (in sé e quasi ideologicamente) portatori di un senso ("Deve trovarmi pronta l'armonia / delle cose - / un gatto un falò, un inverno / o pressappoco - / prima che cambi idea"), veicoli di una dimensione ulteriore a cui con l'occhio e il mirino si possa accedere. Perciò l'autrice, in buona parte del libro, sembra tesa alla creazione di un microcosmo il più possibile felice (o, forse meglio, moderatamente infelice) e forse alieno all'esterno, in cui il sentimento predominante sembra essere la malinconia o una "serena" inquietudine. E' in questo hortus conclusus che si esplica gran parte del lavoro poetico di questo libro, che Fosca svolge e dipana senza "improvvisazioni nella sua scrittura, ma con misura e armonia" (Dante Maffia, nella prefazione), ma anche con notevole maestria linguistica e prosodica la sua poesia "solitaria". Eppure, anche se così  può essere, bisogna infine che il poeta ceda, si faccia trapassare dalle sue esperienze, che l'io, come dicevo prima, "fonda".
Per fortuna (non è, secondo Aristotele, il tragico l'elemento più interessante in arte?)  il microcosmo si incrina: c'è qualcuno, qualcosa là fuori, succedono drammi piccoli o grandi di cui le cose sono spettatori impotenti.  Ed ecco, nei testi migliori, quelli che preferisco, alcuni dei quali di notevole intensità come ad esempio Sono stanca di essere stanca oppure E quando pensavo di averlo trovato (v. più avanti), ecco che l'autrice diventa meno spettatrice meditabonda, meno "poetessa del particolare" (Luigi Papandrea, nella postfazione) e si fa più soggetto attore di una vicenda che può appartenere a tutti coloro che la leggono. (g.c.)


1 di 4 – Mattino

Il vento scrolla le vespe
dall’alba, scuote i pertugi
fangosi della requie notturna –
ed esse vacillano ruggenti
tra i viluppi di lavanda.

Nelle ore torna bonaccia
e governa – la vespa tenace
– le ultime raffiche,
l’aria ferma accoglie
un'ansia di primavera.





Oggi sono verticale.
Gravida per induzione
come traliccio d’alta tensione –
m’attraversa la vita senza scavo.
Ed esisto – ponte ad immobili campate
collegando frange di universo
in corsa parallela ignare d’altra memoria.

Io sola so
e non mi servirà a nulla.





Come una vecchia cascina riattata
così mi riconosco – piena di falsi piani
e storie bislacche. Io, una casa della bassa,
qualsiasi – in nulla appariscente.

Se non spurgo umido
come fan per bene i muri crudi,
anche in me risalgono
salnitro e muffe.

Se non rimango mobile,
impassibile ai tarli ma cedevole
alla terra di fondazione,
mi aprirò dal profondo.

Quando fui solo un pensiero
c’eran di mezzo lenzuola al vento,
si delimitavano così muri storti e famiglie.
Il mondo sta dentro queste cose,
il resto è il tempo che si perde.





Ci sono istanti di marzo che inducono all’attesa
e mi vedono scrivere, china, inutilmente –
il vento falso, qualche gemma impertinente
un fiore di serra acquistato l’altro dì.

Seduta, guardo fuori dai vetri
il giardino immobile che chiama –
un passo, uno solo basterebbe.

Di nuovo mi imbroglierà – chi non dimentica
un impegno per il primo cinguettio dell’anno, chi sfugge
al fiato mozzo guardando il dito che indica la rondine?

Io mi incanto anche nel niente, non mi serve un motivo
per volare – poi atterro veloce. Ci sono panni e pannolini,
minestre e cure che mi tengono occupata,
non è facile il mestiere del poeta al giorno d’oggi.





Sono stanca di essere stanca.
Cammino veloce attraverso i binari
schivando la voce che piove dall’alto.
Se sembro rapida nessuno intende la fatica,
se guardo interessata nascondo debolezza.

“Treno in partenza dal binario 10”
Cosa credi, che non lo sappia?
E’ questa vita che mi zavorra, lasciandomi
una smorfia di prossima nausea.
Non partire, eccomi. Se salgo al volo
sobbalzerà l’entusiasmo sul fondo?
– ammesso che ce ne sia ancora.

Ammesso ma non concesso
come il posto a sedere
accanto ad un dormiente russatore –
che si sogna i suoi sogni, anche se
i miei sarebbero più belli.





E quando pensavo di averlo trovato
l’equilibrio immobile delle sere agostane
quando mi convincevo a credere – e credevo
che i mandorli, l’aria e le briciole
che tutto nella sua perfezione
fosse fermo, quando anche il dolore
degli amici – sepolti spietati –
aveva trovato requie, neppure
il tempo di guardarmi da fuori e sorridere
senza stavolta strozzare la gioia
– mi trovo a piangere appoggiata al carrello
freddo di novembre, tra gli scaffali
dei formaggi e del cibo per cani.





Perdonare un addio è facile
e si fa grande impressione.
Così perdono la tua assenza,
il mio strazio ed il niente successivo.
L’addio definitivo rende liberi
senza tormento – manco un ricordo
duole se non voglio, i fasci
di tempo allacciati a covone
nella memoria ristanno muti.

Ma se sopraggiunge il vento
di un evento inatteso, insperato –
o semplicemente ignoto e smuove
i pensieri a cui volto le spalle,
ecco volare ricordi.
Perché ogni sera ha il suo ritorno,
il suo chiamare e le ansie disattese
– a nulla rispondi, da vent’anni –
e i ricordi sono l’unico ritorno.




“Un matrimonio per essere buono
non necessita di felicità, ma di stabilità”
“Noi abbiamo entrambi”

Ho ingoiato il nostro amore.
Sottile lisca di pesce
si è fermato scomodo in gola
non più voce – non ancora coraggio.

“Quale inopportuna disattenzione
ti permise ingresso?
Dove avevo distratto i pensieri?”

(mentre il tempo ristava crocchiando
come legna estiva ad asciugare –
mentre m’offrivo, terrazza in rigoglio
alle carte, ai pensieri, ai limoni
della cedevole sera agostana)

“Ingollerò molliche di stabilità quotidiana
per possederti tenacemente
dentro o – almeno – fermo”

mercoledì 26 giugno 2013

EMANUELE PALLI RECENSISCE "ANASTASIS" DI NEVIO SPADONI



    TERZA PAGINA

Quotidiano LA VOCE DI ROMAGNA DEL 22 GIUGNO 2013
Articolo di EMANUELE PALLI

Il mondo ha bisogno più di ogni altra cosa di risorgere. Lo intuiamo tutti quotidianamente, ma un poeta ravennate ha messo per iscritto quest’ansia sotterranea e l’ha resa canto ed immagine per l’inquieta e smarrita contemporaneità: la sensibilità umana e poetica di Nevio Spadoni ha dato vita a un’opera dedicata allo stratificato concetto di Anàstasis, quella Resurrezione di cui Cristo ha fornito l’esempio più eclatante per incarnare un principio di speranza sui cui innervare diversamente le nostre esistenze e corroborarne la tempra morale e spirituale. Si tratta di una formidabile laude in tre quadri, intitolata per l’appunto Anàstasis (L’arcolaio, 2013).
La prima parte dell’opera si apre sul pianto della madre per antonomasia, Maria, sotto  quella croce che riflette nella sua forma e nel suo significato i dolori del passato e del futuro, gli infiniti sacrifici sparsi per le terre e le epoche come una pioggia di fuoco e di furore.
Il secondo quadro si precisa in una geografia più attuale ma martoriata da drammi atavici entro un’Africa che piange e riflette i dolori più ampi di un’umanità assediata dalla fame, dalla povertà e dal peso di odiose tradizioni. Il continente nero si configura come un luogo di dolori e ingiustizie sociali, di superstizioni che tolgono alle donne ogni diritto e pratiche aberranti come l’infibulazione che infliggono un dolore indicibile a chi deve sottoporsi a questa simbolica e carnale sottomissione: il pianto si allarga sui drammi di un continente infettato dalle sofferenze, in cui corpo umani si trasformano “in materia pregiata da espianto”. L’ultimo quadro riverbera invece una luce curativa di speranza, una salvifica iniezione di energia all’umanità: la voce del Cristo si mescola al coro dei credenti perfezionando in questa sede poetica il messaggio cristiano che si diffonde come un vento profumato, un alito odoroso di incenso che risveglia e risana. Mondare, detergere, pulire e purificare sono i verbi più frequenti in questa ultima parte e ne definiscono il campo semantico immettendo nell’atmosfera della luce che irrompe nel mondo bruciando le contraddizioni e cicatrizzando le ferite: è un seme sepolto a rivelare la potenza soteriologica del Cristo rinascente. Tra colori di variopinte farfalle, suoni di violoncelli e profumo di calicanto si risolleva il mondo dell’abisso con un Avvento che restituisce all’uomo la sua integrale dignità. Nevio Spadoni è uno scrittore bilingue che ha creato capolavori sia nella poesia in dialetto che in quella in lingua: anche questa volta è riuscito a toccare l’acme della potenza espressiva con il minimo dispiego di mezzi in un testo verticale nella sua brevità e abissale nella sua profondità che gli è venuto in italiano perché, come ci ha rivelato, «ci sono argomenti che per loro natura richiedono una lingua forse più severa e austera del dialetto». In questo testo dalla vibrante intensità Spadoni ha dato voce a un dolore onnipervasivo che cade in uno stillicidio di versi brevissimi, spesso di una sola parola scelta con cura meticolosa e folgorante ispirazione, che approfondiscono in maniera martellante e penetrante gli occulti ma illuminanti poteri dell’enunciato poetico. Si potrà ascoltare l’opera nella sua forma recitata il 4 luglio alle 21.30 ai Chiostri della Biblioteca Classense: lo stesso Spadoni, formidabile lettore dei propri testi, si esibirà insieme all’attrice Francesca Serra e a un variegato accompagnamento musicale che spazierà da antifone tardo-medievali ad anonimi canti africani fino all’esplosiva classicità di Rachmaninoff. Dal lavacro del dolore risorgerà, per gli spettatori come per i lettori di Anàstasis, intatto nella sua profumata belleza il fiore del deserto a guaire la deflorata innocenza dell’umanità e la violentata disponibilità della Terra pronta a ritornare con una metamorfosi spirituale alla sua ricchezza primigenia.
EMANUELE PALLI
Risvegliatevi
al profumo
del calicanto
che
attraversa
ogni dolore,
che fende
il ghiaccio
duro del
lungo
inverno

Nevio Spadoni

giovedì 20 giugno 2013

LA POTENZA CAMPANA DEL VERSO: CARMINE VITALE E FRANCESCO FORLANI - CASERTA E SALERNO




Carmine Vitale e la sua scrittura affollata, rischiosa, affascinante, intermodale, di cuore, del sangue, di terre lontane ad est, a nord. Il suo verso è oggettivo, è tutto & tutti. Grandi poeti dell'europa orientale si danno la mano per inseguire la radice dell'uomo, così come il cetaceo mostruoso degli oceani, che potrebbe essere la nostra radice, il nostro dio, ci viene incontro attraverso ritrovamenti acquei, incorruttibili. Questa di Carmine è poesia fiume, epica e sontuosa. Ma è pure l'empito della semplicità, il ricordarsi di un piccolo gesto, come darsi la mano o taccare il cuore di chi si ama.
Innamoratevi pure di questa forma di espressione; l'autore sarà lì con voi, pronto ad accompagnarvi nelle fluide falde della crosta terrestre e dei sogni relativi. 






  Francesco non ha tregua, si muove fecondo verso l'esposizione al massimo grado dell'euforia. Inizia con lui una lunga canzone fatta di lingue diverse -l'italiano e il francese - miscelate in modo sorprendente con il dialetto casertano, in una sorta di coriandolo, di giostra che non ha soluzione di continuità. Le gambe delle donne, la segnatura del loro incedere così flessuoso, gratificante al senso dell'equità. I treni dei suoi viaggi, le canzoni delle memorie, dei genitori, della napoletanità stile anni Cinquanta, stile Sophia e Vittorio, e Clark Gable, nel colore dei pomidori, nel buio delle gallerie dell'appennino meridionale, verso la Puglia, verso performance e verso il senso del bilancio di una vita ancora nel suo pieno intender delle cose. Capita, allora, di redigere un testamento mentre il convoglio affronta Monterosso delle Cinque Terre, oppure quando l'anonimo intercity varca le colline montane vicino a Benevento. Questo Peso del ciao rappresenta tutta la leggerezza dell'esistenza vissuta fuori dei gangheri, ma tutta all'interno di un cuore.   


                      

sabato 15 giugno 2013

SU "POESIA" DI GIUGNO 2013, ROBERTO CARIFI PARLA DI DUE LIBRI ARCOLAIO: "ANASTASIS", DI NEVIO SPADONI, E "DOPO QUESTO INVERNO" DI LUCIANO BENINI SFORZA



PER COMPETENZA, DI ROBERTO CARIFI




RIVISTA “POESIA” NUMERO DI GIUGNO 2013


Nevio Spadoni è nato a San Pietro in Vincoli (Ravenna) nel 1949, e da pochi anni vive a Ravenna. Allievo di Enzo Melandri all’Uni-versità di Bologna, si è laureato con una tesi sul filosofo spagnolo Xavier Zubiri, e ha insegnato Filosofia in diversi licei di Ravenna. Una sua raccolta di poesie in dialetto, con prefazione di Ezio Raimondi, è stata pubblicata da Raffaelli editore. Ha curato poesie dialettali e ha ottenuto diversi premi. Ora è uscito Anàstasis (L’arcolaio), con interventi di Giorgio Bárberi Squarotti ed Eberhard Bons. Il libro è costruito in tre quadri, o stazioni di argomento religioso. Bárberi Squarotti scrive a un certo punto: “È la voce aperta, dispiegata, altissima della certezza della speranza […] in forza dello straordinario ossimoro di cui Spadoni si avvale. Si affollano le citazioni bibliche, come spiegazioni del significato della storia e delle forme dell’esistenza”.
Voce

Natura debole
capricciosa
avida,
cuore tinto
di passione infetta.







È uscito, sempre per L’arcolaio, Dopo questo inverno di Luciano Benini Sforza. Nato a Ravenna, Benini Sforza Ha studiato presso la Scuola Normale di Pisa. Insegna materie letterarie e vive a Marina di Ravenna. Si è occupato  di  poesia  dialettale,  e  come  poeta ha pubblicato molti volumi, tra cui Viaggio senza scompartimento (Mobydick) e Nel fondo aperto degli occhi (Raffaelli Editore). Dopo questo inverno è un buon libro antilirico , e sublime, come sono sublimi la salsedine, la terra, l’acqua per irrigare i campi. Jean Soldini, nella prefazione, si esprime così: “Pioggia, acqua, mare su quel pavimento, su quella città che è anche andare al largo. L’acqua e la terra che ritroviamo in quelle costole nude che sono i calanchi, in quei solchi profondi provocati da erosione di superfici impermeabili eppure facilmente disgregabili […] È la condizione terrestre: più acqua che terra, un quarto di terra e tre quarti d’acqua”.

Il gioco fra le pietre

Del muro consistente
ho la sensazione netta
durante lo spostarsi del mio fuoco,
col mio andare e apparire in mezzo alle
       vite.
Ma il gioco  sta nelle pietre, nell’erba
che si incastra, nel guizzo
di una lucertola in fuga
                                          che lo spacca.