lunedì 31 agosto 2015

ALESSANDRA TREVISAN RIFLETTE SULL'ULTIMO LIBRO DI RENZO FAVARON, "BALADA INCIVIE, TARTUFI E ARLECHINI"







 Renzo Favaron, Balada incivie, tartuffi e arlecchini, L’Arcolaio, 2015,
DAL BLOG POETARUM SILVA
RECENSIONE DI ALESSANDRA TREVISAN

Negli ultimi anni la poesia dialettale veneta ha trovato in alcuni autori, spesso ospitati anche sul nostro lit-blog, un’energia letterariamente nuova o rinnovata: tra questi si possono ricordare, ad esempio, Piero Simon Ostan e Andrea Longega. Ma Renzo Favaron (già ospitato qui e qui), a differenza delle voci citate, si esprime in un dialetto veneto che potremmo definire misto, di provenienza varia. Spiega Anna Toscano: «La sua caratteristica poetica è la lingua che è un dialetto non di una città precisa, non di una zona particolare, ma un dialetto intimo. Il suo dialetto è un viaggio, nella poesia e nell’esperienza, con una cifra personale e una voce, appunto, intima. Ed è molto corposo, ricco, raccoglie varie particolarità e varie espressioni; tutto ciò rende la sua poesia una sorta di invocazione alle cose di tutti i giorni, alle piccole e grandi quotidianità che ci legano alla vita, soprattutto quando la si mette spesso in discussione. Vita sentita: i battiti, il polso, sono in ogni poesia. Ma anche vita in presenza della morte» (in Virgole di poesia, prima stagione).
I ricordi e il passato, la forza del conoscere (e del volere e saper conoscere), il dialogo con uno ieri che non c’è più o che c’è in una forma diversa, sono il filo conduttore anche dell’ultima raccolta di Favaron Balada incivie, tartuffi e arlecchini edita dai tipi de L’arcolaio. È fin troppo facile affermare che il dialetto ricarichi la parola della sua intrinseca potenza e tuttavia la poesia di Renzo Favaron “dice tutto” con il dialetto che non è reliquia ma una scelta etica e anche l’unico strumento linguistico in grado di proclamarsi il più fedele possibile ai temi, non ultimo l’unica figura possibile di una memoria con la quale non solo l’autore ma anche il lettore cerca di fare i conti, con la quale pare necessario riconciliarsi.
La tradizione porta all’attenzione personaggi che propongono una criticità culturale ma che non soltanto dentro questa lingua (critica) trovano verità d’esistere. Mi riferisco agli arlecchini e ai tartuffi del titolo (ma anche al “mangiafuoco” – e come si può non pensare a Pinocchio, in questo caso), personaggi che appartengono alla cultura veneta, in questo caso, riordinati in un catalogo che aumenta lo sforzo d’immaginazione del lettore. Ci si cala sì in un universo folkloristico ma si mette in campo altresì molta della letteratura dei secoli passati, che su figure analoghe ha costruito monumenti. Si risveglia così un’appartenenza culturale che si potrebbe definire “sovraregionale”, nel caso dell’Italia, e interculturale dal punto di vista letterario.
La forma lunga del poemetto, infine, è una scelta drastica ma non anacronistica, anzi: di certo potrebbe allontanare anche dall’immediatezza che lo stesso dialetto comporta e di cui si è detto sino a qui. Eppure essa è funzionale alla struttura, alla costruzione del verso. La lunghezza riesce a esprimere la complessità del vivere – che non è solo soggettiva – ma anche a imporre all’autore e al lettore un altro tempo, più lento, che è quello della lettura e dell’elaborazione e della comprensione dell’esperienza. La lentezza “costringe” il lettore a trovare il tempo di prendere il respiro, fermarsi, riflettere e anche rileggere, talvolta. Ed è un’audacia raramente concessa, che afferma la straordinarietà e la bellezza di questa poesia.
***
In diaeto
Se penso a la me storia, no’ penso
in Talian, ma in diaeto.
Se vedo el me paese, lo vedo
in bianco e nero, o no’ lo vedo.
Epur no’ son vecio: solo
o no’ son cressuo o no’ son mai vissuo
al de là del circolo che cô lo se bate
el me parla in diaeto
o no ‘l me parla par gnente.
Ogni tanto, cô tira la tramontana
o sento fare el me nome,
me pare de no’ ‘vere pì fradei e sorele,
de essare solo al mondo.
Alora torno a casa, ciapo on goto,
lo inpenisso e ghe dago da bevare
a le piante, po’ puisso la gabia
del canarin, sbasso le saracinesche
e davanti a lo specio speto che passa l’ora in cui no’ son
ch’el rosso vivo dea sigareta:
batisuòsola de tute le robe che no’ ghe xe pì
a ogni respiro.

*
In dialetto
Se penso alla mia storia non penso
in italiano, ma in dialetto.
Se vedo il mio paese, lo vedo
in bianco e nero, o non lo vedo.
Eppure non sono vecchio: solo
o non sono cresciuto o non sono mai vissuto
al di là di un cerchio che, quando lo si batte,
mi parla in dialetto o non mi parla per niente.
Ogni tanto, quando tira la tramontana
o sento fare il mio nome,
mi pare di non avere più fratelli e sorelle,
di essere solo al mondo.
Allora torno a casa, prendo un bicchiere,
lo riempio e do da bere alle
piante, poi pulisco la gabbia
del canarino, abbasso le saracinesche
e davanti allo specchio aspetto che passi l’ora
in cui non sono che il rosso vivo della sigaretta:
lucciola di tutte le cose che non ci sono più
a ogni respiro.

***
L’eternità xe curta
Te dovarissi vedar
come che se speta ‘na paroa.
On fià se fa finta
de dormir, on fià de lezhare.
Se fuma.
Soratuto no’ se fa gnente.
El giorno no’ xe pì giorno,
cualche òlta ‘riva on raio de sol,
cofà se ‘l fusse ‘na piera.
Gnanca se se sposta.
No’ serve tirar zò el dolor
co’ nantro dolor.
El corpo resta dó òlte segnà.
E forse no’ xe da ti
che deve vegner ‘na paroa.
Dio gà i so tenpi.
Par nu l’eternità xe curta.
Copie de Cristo
a la cuindicesima stassion
no’ crocefisse ma ben o mal
pì sole, descantae.

Cussì se speta.
Anca gnente,
che no’ xe pezho
de scoltar on sòno de lata
in-te on vaso dorà.
Sì, no’ paga mai
doparar ‘na lengua morta.

*
L’eternità è corta
Dovresti vedere
come si aspetta una parola.
Un po’ si fa finta
di dormire, un po’ di leggere.
Si fuma.
Soprattutto non si fa niente.
Il giorno non è più giorno.
Qualche volta giunge un raggio di sole,
come se fosse una pietra.
Neanche ci si sposta.
Non serve diminuire il dolore
con un altro dolore.
Il corpo resta due volte segnato.
E forse non è da te
che deve venire una parola.
Dio ha i suoi tempi.
Per noi l’eternità è corta.
Copie di Cristo
alla quindicesima stazione
non crocefisse ma lasciate
più sole, disincantate.

Così si aspetta.
Anche niente,
che non è peggio
di ascoltare un suono di latta
in un vaso dorato.
Sì, non paga mai
usare una lingua morta.

***
da Ballada incivie
III (Invocassion)
Eh sì, povara Italia, cussì orba e in man
a furboni furbi in tramaci.
Povara Italia, che te sbingoi dai lavari
de Arlechini e Tartufi sfiatà,
chi sito diventà? Vidito miga che te ti-ssì

persa pa’ strada? On fià a la òlta
te te ghè scusìo la facia. Povara Italia
come gheto fato a lassarte inpenire la panzha
e ‘ncora de pì svodare la testa?
Ciapate el tenpo se no’ xe massa tardi.

Ciapate cura de ti se ti-ssì
‘ncora bona de vardarte. La sentito miga
sta ganba che scaìna, ste costoe
che dopo la péle se sta magnando anca i ossi?
E el sienzhio de sti tosi ai cuai i pari

gà portà via la vozhe, cofà agnei sacrificà
in nome de ‘na fede senzha Dio?
Lo seto se esiste ‘ncora sto vecio co’ le piaghe
o na fame da lupo de ‘na caressa?
Me par che Dio no’ sia uguae par tuti

se me vien da dirte: dal dito al fato
te podarissi vedare le stele e dopo gnente altro
che el scuro pì scuro.
Ma se no’ te vol perdare el dì pì belo,
povara Italia, tien gli oci verti par tuto:

a la boca inpenìa de mosche, a le stanpee
e al muso co’ gli oci a mandorla,
che no’ i iè cofà ‘na luse che orba da ‘na vetrina,
ma ai cuai gnanca ti te pol far de manco.
Su, sveiate, ciapate cura de ti.

Ciapate el tenpo pa’ salvarte la facia,
pa’ no’ deventare cofà on baston tuto gropi
che no’ xe mai pronto
a inarcarse in-te ‘l soriso e in-te ‘l pianto.
……………………….

*
III (Invocazione)
Eh sì, Povera Italia, così cieca e in mano
a furboni furbi in tresche.
Povera Italia, che ciondoli dalle labbra
di Arlecchini e Tartufi sfiatati,
chi sei diventata? Non vedi che ti sei

persa per strada? Un po’ alla volta
ti sei scucita la faccia. Povera Italia,
come hai fatto a lasciarti riempire la pancia
e ancor di più svuotare la testa?
Prenditi il tempo se non è troppo tardi.

Prenditi cura di te se sei
ancora capace di guardarti. Non senti
questa gamba che si trascina,
queste costole che dopo la pelle
si sono mangiate anche le ossa?

E il silenzio di questa gioventù
a cui i padri hanno portato via
anche la voce, come agnello sacrificato
in nome di una fede senza Dio?
Lo sai se esiste ancora

questo vecchio con le piaghe
o una fame da lupo di una carezza?
Mi pare che Dio non sia uguale per tutti
se mi viene da dirti: da un attimo all’altro
potresti vedere le stelle e poi niente

più che il buio più buio.
Ma se non vuoi perdere
il giorno più bello, povera Italia,
tieni gli occhi aperti per tutto:
alla bocca piena di mosche, alle stampelle

e al volto con gli occhi a mandorla,
che non sono come una luce
che acceca da una vetrina,
ma a cui nemmeno tu puoi fare a meno.
Su, svegliati, prenditi cura di te.

Prenditi il tempo per salvarti la faccia,
per non essere come un bastone
nodoso che non è mai pronto
a inarcarsi nel sorriso e nel pianto.
……………………….


DAVIDE TARTAGLIA RECENSISCE "RICONOSCENZE" L'ULTIMO LIBRO DI JONATA SABBIONI





prefazione di Adelelmo Ruggieri





Riconoscenze”, Jonata Sabbioni
(L’Arcolaio, 2015)
lettura di Davide Tartaglia

articolo apparso sul blog “Una casa sull’albero”

“Riconoscenze”, seconda opera in versi del giovane poeta fermano Jonata Sabbioni, affida al titolo una prima dichiarazione di poetica: la poesia, proprio come una lente di ingrandimento, non ha il compito di creare il reale ma piuttosto quello di “ri-conoscere”, di conoscere nuovamente e in maniera più autentica, o forse, più ancora, quello di rinvenire nel mondo delle tracce di sé. Questo reperimento implica un assunto iniziale: che esista nella “foschia acquatica” del mondo un anello di congiunzione con l’io, un’insospettata corrispondenza.
Infatti, della realtà, non si riconosce nulla se non qualcosa che abbiamo già conosciuto, se non qualcosa che abbiamo perduto o che, anche solo in minima parte, già ci appartiene ab origine.
E ancora: il verso nasce da una sovrabbondanza, da una sovrabbondanza indicibile che rivela l’inadeguatezza della parola, costretta inevitabilmente ad una tensione. Sovrabbondanza che è “croce” (per una sproporzione bruciante) e anche gratitudine, secondo significato del termine “riconoscenza”.
Nel dramma del riconoscimento s’instaura una relazione biunivoca tra soggetto ed oggetto; l’io lirico, infatti, si trova ad essere, alternativamente, colui che riconosce e colui che è riconosciuto.
Questo dramma che solca l’intera opera mette in campo due atteggiamenti apparentemente contrastanti: da una parte il continuo affacciarsi, il ripetuto “dis-equilibrio” che provoca uno sbandamento, e dall’altra una passività, nella ferma convinzione che il ricongiungimento è ultimamente “ri-conoscenza” di qualcosa che giunge aldilà della volontà e della possibilità del soggetto di crearlo.
Il corpo della seconda opera del poeta fermano è forse la scoperta che questo inevitabile disequilibro è la strada, la porta stretta per un riconoscimento autentico dell’io all’interno del reale.

-          Paesaggi umani
Ma anche lo stesso disequilibrio, nel libro di Sabbioni, è il risultato di qualcosa che precede, non è né una posa né una programmatica disposizione dell’animo, ma nasce innanzitutto come la risposta a un dato, è abbandono di fronte all’evidenza nuda del reale, “alla luce che svuota”.
Ma c’è come una corda che trattiene “di qua” e che impedisce il salto, una forma istintiva di conservazione dell’io, dunque l’abbandono, pur nella sua corrispondenza naturale, è un’esperienza tutta da conquistare. La scrittura di Sabbioni si inserisce nella tensione tra questi due poli, si distende verso l’orizzonte: brucia le distanze quasi a voler toccare “l’estremità della pianura”, poi a tratti si dipana, allarga la propria maglia per accogliere in un verso ampio tutto ciò che, non previsto, irrompe nella lunga gittata dello sguardo.
In entrambi i casi, la cifra stilistica del poeta fermano si situa nella sobrietà di un linguaggio che rifiuta esplicitamente qualsiasi preziosismo fine a se stesso, ma che, allo stesso tempo, mai scade in sciatteria; l’uso dell’aggettivo è centellinato, a mostrare che nulla c’è da aggiungere alla forza del dato che emerge dal reale e l’unico lavoro del poeta è di scavare per riconoscerlo e “salvarlo”.
La salvezza di Sabbioni non è un concetto astratto ma è un’esperienza sensibile, la parola del poeta fermano, infatti, si smarca da ogni stucchevole forza evocatrice e fonda la sua consistenza nella rivoluzione dello sguardo, nello sforzo di una messa a fuoco di tutto il reale, con lo scopo di liberare ciò che giace al fondo, nella stretta dell’anonimato (possiamo toccare altre vite / se posiamo su loro gli occhi).
Sabbioni sembra aver assorbito integralmente la trasversale lezione pasoliniana all’interno del filone antinovecentesco del secolo passato, sia dal punto di vista stilistico che speculativo, e la incarna nella singolarità di un tempo e di un luogo, nella dimensione personale di un uomo che vive con interezza la contemporaneità, che trattiene e porta in sé e con sé tutto il mondo.
Ecco allora che le immagini risentono inevitabilmente di una topica del paesaggio marchigiano ma senza mai ridursi a ripetizioni anacronistiche di stilemi obsoleti; per Sabbioni la provincia rimane baluardo di resistenza al potere e, contemporaneamente, punto di vedetta e di slancio per un giudizio originale sul mondo.
La riconoscenza è dunque l’avvenimento di un incontro tra il tentativo di “mappare il reale” e la realtà che si presenta come “dato”, realtà che imprevedibilmente si concede allo sguardo del poeta schiudendo il mistero della propria origine (mi sporgo dal baratro / del tuo volto […] sei tu la mia natura / la linea di sangue sulla pelle / la sete che divora la terra / l’origine vivente dei nomi).
Il dramma di Sabbioni si consuma in questo continuo sporgersi su un Mistero, inconoscibile nella sua interezza, solo approssimativamente abbozzato dal piccolo scoglio del reale, dalla terrazza degli occhi, eppure è già abbastanza per riconoscere la profonda corrispondenza di un mistero che si rivela intimamente impastato con l’origine più profonda dell’io.
Il rapporto con un “tu” scava sottotraccia tutte le pagine del libro e puntualmente riaffiora, a volte come un’oasi di pacificazione (all’origine dei tuoi capelli trovarsi, […] Tutto è pacificato. Tutto è riunito, adesso), in altri episodi come la chiave di accesso alla realtà totale, la quale è schiodata dalla sua incomunicabilità per rivelarsi nella sua autenticità.
E’ proprio in questa doppia natura del “tu”, immanente e trascendente, che si esprime la continua lotta di Sabbioni nell’apparente contraddizione di una “verità che non si conosce, non riluce / né si traluce”, una verità che si cela e rimane “voce inudibile” e che poi sembra, a tratti, rivelarsi nella carne.

-          Riconoscenze
E’ nella seconda sezione che questa invocazione inizia ad assumere dei contorni riconoscibili: figure della memoria o del presente, luoghi, incontri in cui vibra un “indizio di gloria” che “anticipa il mistero”. Nelle “riconoscenze” le presenze abituali emergono in una luce nuova, sotto la quale la quotidianità viene sottoposta ad un processo di risignificazione in cui i singoli frammenti sembrano legarsi ad un punto lontano (un peso immenso), irriducibile e, infine, ricomporsi. La novità in Sabbioni è sempre un approfondimento dell’inizio, è inabissamento nell’origine più che progressiva giustapposizione o allontanamento.
L’io lirico scopre la propria appartenenza ad un “altrove” come esito di un processo di radicamento nella terra e non nella fuga: più la parola tende a fondarsi, a ricavarsi un luogo hic et nunc e più emerge l’evidenza di una cittadinanza più profonda che è oltre il mondo. Solo al “centro di questa parola” tutto si può accogliere davvero, senza riserve, può risplendere la gloria degli sconfitti, dei senza patria.
Ma questo riconoscimento del mondo e dei suoi figli corre parallelamente al secondo significato della parola “riconoscenze”, che è quello di una gratitudine che implica la responsabilità di una restituzione totale di sé al mondo.
Il riconoscimento del mondo si pone dunque, contemporaneamente, come origine e conseguenza di questa gratitudine. E’ proprio nell’istante in cui si è riconosciuti che il poeta può riconoscere se stesso e l’altro, e, viceversa, è nel riconoscimento dell’altro che l’io ritrova il suo alveo originario (oltre l’inganno /  della permanenza sta solo / la gioia che viene dalle cose, / dal loro colore immobile). In questa dinamica è centrale la figura archetipica della madre come chiave di accesso al mondo, il punto in cui tutta la storia ha inizio e in cui tutto va nuovamente riconquistato.

-          Equilibrio
L’equilibrio dell’ultima sezione è dunque più un approdo intravisto che un porto definitivamente raggiunto e si situa nell’accettazione di un “ascolto che non sa conoscere” e deve continuamente tendersi, ricominciare. L’uso dell’articolo indeterminativo nel titolo “un equilibrio” rende subito chiaro come Sabbioni si riferisca ad uno dei tanti possibili stati di permanenza, una tappa non definitiva del viaggio, che richiede puntualmente una nuova partenza. Adelelmo Ruggieri, in prefazione, scrive di un movimento necessario per non cadere irrimediabilmente: “se restiamo fermi, in piedi, basta poco per cadere, e allora facciamo un passo, e poi un altro; quel passo è lo iato fra lo stare in equilibrio e il mantenersi in equilibrio”.
L’equilibrio di questa terza sezione non è solo l’esito di un esercizio o di uno sforzo, ma è l’accadere di un incontro, l’imprevisto accordo del passo del poeta con il naturale ritmo della vita e del respiro (mi sveglio e accade nella notte / che un altro respiro mi sfiori).
Se la prima sezione è percorsa dalla tensione conoscitiva dell’io e la seconda dallo stupore (e anche dalla violenza) del riconoscimento di un altro che giunge, in questa terza parte si compie l’accadimento ulteriore: l’accettazione libera dell’altro.
L’incontro, per il poeta fermano, non è l’azzeramento della differenza, l’annullamento liquido del tratto distintivo di ogni realtà, ma è piuttosto un luogo in cui il riconoscimento dell’altro, nella sua totale irriducibilità, diventa il punto in cui potersi ultimamente riconoscere.
Sabbioni, nella sua seconda raccolta, riprende il filo del discorso intrapreso nel primo libro, e si rendono evidenti gli esiti di una ricerca sul verso che corre parallela ad un approfondimento umano personale. Si nota un’attenzione maggiore al ritmo, che, rispetto alla spezzatura dell’opera di esordio, trova un respiro più ampio, sia attraverso la ripresa occasionale del metro tradizionale, sia attraverso l’uso sapiente dell’inarcatura che appare molto più consapevole.
L’implorazione commossa dei due versi finali (- Vuoi essere, tu, ora che la parola / è alla tua bocca? -), attraverso un irremovibile contegno, rappresenta il compimento di una raccolta che ci restituisce una voce libera dalla stretta dell’autoreferenzialità e votata all’ascolto, un ascolto che non è una posa ma accoglienza totale di una totale alterità. Fino a ferirsi. Da qui sgorga la poesia

DAVIDE TARTAGLIA

lunedì 17 agosto 2015

MARINA SANGIORGI RECENSISCE, SULLA RIVISTA CLANDESTINO, "IL SEME DEL GIORNO" DI ROSSELLA RENZI







 
MARINA SANGIORGI 
su 
Il seme del giorno” 
di Rossella Renzi


maggio 28, 2015 SU RIVISTA CLANDESTINO

La casa editrice L’arcolaio di Gianfranco Fabbri (Forlì) ha di recente pubblicato la seconda raccolta di poesie di Rossella Renzi Il seme del giorno. Nata nel 1977, la Renzi vive e insegna a Conselice (Ravenna); ha due figli. La poesia è davvero il seme, il nocciolo della realtà che c’è prima, che ci sarà dopo. Intorno a ogni poesia c’è una storia che il lettore, se vuole, può cercare di immaginare.

Abbiamo lottato un pomeriggio intero.
Ora tu dormi, io scrivo,
rimetto ordine al mio schianto d’organi
rendo un senso ai tuoi sogni scomposti.

Cosa pensi, cosa? Della voce di tua madre,
quando urla, prega, sussurra il tuo nome?
Cosa sente la tua piccola schiena
appoggiata alla mano che trema?

Asciughiamo la saliva sul viso,
gli occhi lucidi sul nostro cammino.

Questo testo può essere un esempio della “furiosa concretezza fisiologica” (definizione di Fabbri) che caratterizza l’autrice. Rossella e suo figlio hanno litigato, lo scontro dura un pomeriggio, poi si placano: il bambino dorme, lei scrive, appoggia la mano ancora tremante per il nervoso alla “piccola schiena”. Forse lei asciuga le lacrime di lui, forse è il figlio che asciuga quelle di sua madre. Il loro cammino comune continua.
Gianmario Villalta nella prefazione afferma che tema centrale del libro è la cura, degli altri e di sé.

Sorveglio da questo ramo troppo alto
che tutto proceda nel migliore dei modi
che non ci siano in agguato predatori
per il corpo, così lieve e ridente
che non si lasci prendere davvero
che la casa per voi sia calda e accogliente
che l’albero che mi ospita vi protegga per sempre
con la sua ombra, il suo silenzio verde.

L’autrice osserva la sua famiglia, i bambini, i figli, gli scolari: vuole proteggerli dai predatori, vuole che la casa sia un luogo sicuro, che si possa stare al riparo, all’ombra, sotto un grande albero che  custodisca come un padre, o un tempio. In un’altra poesia si rivolge a un gelso centenario dicendo: “A te vengo come ad un tempio”. La natura non è nemica per la Renzi: “sono state le mani di un bambino / il disegno di Dio / che gioca con la palla” a creare il mondo per noi.

Sei caduto per caso
e qui sei nato.
Raccontami ora
del sacro che abbraccia anche gli alberi
nati per disciplina
nati per il dovere della sete.
 Un seme è caduto ed è nato un albero. O forse si tratta di un bambino? Comunque il sacro abbraccia tutto, ed è una disciplina e un dovere curare e far crescere ciò che nasce, anche quando pare che avvenga per caso: perché, una volta nato, ogni essere ha sete di acqua e di vita.