giovedì 30 luglio 2015

ARNALDO EDERLE RECENSISCE L'ULTIMO LIBRO DI RENZO FAVARON, "BALADA INCIVIE, TARTUFI E ARLECHINI"











ARTICOLO TRATTO DAL QUOTIDIANO VERONESE L’ARENA, DI OGGI.
ARNALDO EDERLE RECENSISCE “BALADA INCIVIE…” DI RENZO FAVARON

Renzo Favaron ricompare in libreria con un suo nuovo libro intitolato Balada incivie, Tartufi e Arlechini (L'arcolaio, pagine 109, 12 euro) una raccolta che comprende, oltre ad una lunga diatriba che riguarda la sua vita e il suo lavoro, una serie di poesie lunghe che ricordano la struttura del poemetto, un genere poetico finora comparso raramente nelle sue composizioni. Favaron ha sempre preferito la lirica di misura tradizionale, cioè breve folgorante anche se talvolta questa misura si è presentata più complessa e spesso frammentata in strofe, fin dalla sua prima raccolta, cioè da Presenze e conparse del 1991. Mi sembra questo cambiamento di struttura una novità interessante perché affianca una tendenza abbastanza comune tra le scritture dei vari poeti italiani di questi ultimi anni.I temi infatti trattati in questo libro non sono propriamente i temi della lirica in senso stretto «Nino, forse pa'l'ultima òlta torno/ al me dialeto pà' sentire vive/ le robe morte tacà a la to boca/ -mi che cò sero i oci/ so simie a ti e no te strinzho pì,/ strinzho na facia de lagreme/ che no pianzhe», sono temi, come quello appena citato, che riguardano la vita del poeta e quella della sua terra, dei suoi concittadini, dei dolori e dei gravi e meno gravi problemi sentimentali o della dura esistenza che porta alle lacrime.E d'altra parte è lo stesso titolo del libro che indica palesemente questo progetto. «Se penso a la me storia, no penso/ in Talian, ma in diaeto». Ecco, anche in questi due versi un'altra affermazione chiara che riguarda le sue naturali tendenze linguistiche.E' questa una cosa che, in tanto tempo che lo seguo, ho sempre pensato e della quale sono quasi sicuro. Una sensazione che ho cominciato ad avvertire fin da Presenze e conparse, il primo libro che ho letto con molto interesse e che ho recensito con grande piacere lusingandomi di aver trovato un poeta vero e capace di impersonare la poesia veneta nel più alto dei modi: «No' gero de pì de de 'na gaìna./ Anzhi, me saria piazhesto essere/ on papavaro, rosso in mazho al fromenton/ zhalo, cofà co gironzolavo/ in-te 'na strada bianca, arginae/ e a destra e a sinistra ghe gera el velo d'i salgari/ a far da angei custodi al me canae».E' vero che anche nelle traduzioni in lingua italiana le sue espressioni non fanno una piega, ma è anche vero che i suoni del dialetto infondono nella sua poesia una sonorità particolare, assai realistica, un po' dura come in tutti i dialetti, ma che colora i suoi versi di quella autenticità propria di queste lingue come raramente sa fare una lingua nazionale. Dunque ben venga il dialetto con il suo patrimonio naturale, spontaneo e pieno di colorature ora secche, ora dolci e piene di ricordi e di rintocchi antichi come quelli che sgorgano dai bei versi di Renzo Favaron.o
Arnaldo Ederle