lunedì 8 dicembre 2014

GIAMPAOLO DE PIETRO RECENSISCE CARMINE VITALE ("ALCUNE COSE" E "IL LEVIATANO DI MELVILLE")



DAL SITO L''ESTROVERSO - SETTEMBRE / DICEMBRE 2014 - 
ARTICOLO DI GIAMPAOLO DE PIETRO

Una poesia onesta richiede una lettura al vetrino, un’onestà da lettori pazienti e forse anche un tantino incoscienti di quell’importante lavoro che stanno, di volta in volta, compiendo, seguendo il proprio richiamo alla lettura – ad occhi limpidi, che fanno e compongono, attraverso le pagine, ogni verso fino all’amore per la parola che tutto congiunge e ricongiunge, fino a qualcosa che viene a formarsi, intorno e nella vita, per il suo stesso scioglimento, in progressione e rapporto agli infiniti passaggi tra paesaggi che ne costituiscono (e restituiscono, pure) strade, confini; pagine. Un libro di poesia, scriveva qualcuno: niente di più lontano dalla letteratura; niente di più confondibile, in taluni casi, con la vita stessa.

La vita mi è sembrata un panorama

che passava dietro i finestrini della macchina

(…)

Questo panorama tra i versi di Carmine Vitale, si trova nel suo libro Alcune cose (L’arcolaio 2010) – alcune cose che da subito possono cogliersi in questa scrittura che ha per “mezzo” la vita, e sì, il suo infinito frullio di realtà e sopravvivenza del sogno, la poesia che probabilmente potrebbe allora esserne il “fine” – ma è come scoprire che questa poesia, di questa vita, e degli interrogativi che la popolano e “confondono” – abbia ogni angolo di partecipazione e slancio – ogni sguardo esposto, necessariamente, in poesia – sia dello stare al mondo, sia dell’accorgersi di stare sognando ancora, e comunque, la vita nella vita.


Mi fa piacere non sapere che cos’è importante

né cosa volerà giù da un precipizio

se ci cadrà una sera profumata

o la tua morte e il mese di Settembre,

se nelle tue parole ci sia sale oppure solo sete,

se nel mio seme infranto o nelle vene

presagi della notte o della quiete.

So che mi fa piacere guardare un temporale

che cade a più non posso come un male,

che fa più male ancora di una strada non attraversata.

Ma mi fa piacere stare qui a guardare con aria scanzonata

ciò che finora siamo stati e il cielo che si apre sanguinante



Quello che possediamo è il titolo di questa poesia, che si trova in chiusura a Il leviatano di Melville e altre poesie, libro che Carmine Vitale pubblica nel 2012 nuovamente con L’arcolaio (l’editore va ringraziato dal lettore onesto). Il lavoro che passa per la sua lettura è grande: si tratta del ritrovamento dei resti di un enorme cetaceo, vissuto tra i dodici e i tredici milioni di anni fa. Forse la stessa “età della memoria” – memoria che Vitale ha, e la sua poesia cerca, scrivendolo, di portare in salvo e tenere, insieme a chissà quale necessaria speranza, a un fratello ricordo, e un futuro dentro le cose di adesso e di allora, forse – tutti presenti nella sua parola, nella vita di uno sguardo così interessato a “conservare”, riservare anche piccoli spazi a racconti che fanno ritratti lontani e vicini, raccolti e stupiti, tra un “testimone” e il sentire altrui, in questa abitazione comune che è la poesia, quando riesce ad essere anche questo: accoglienza, pluralità, storia che passa per le linee di una mano e si fa geografica mappa di un viaggio nel tempo, fino a un ritrovamento che poi è ancora domanda, ricerca, perdita, tramortimento e ricordare, atto d’amore inevitabile.


«Ricordare: dal latino re-cordis, ripassare dalle parti del cuore»





Nella maniera più fedele si dovrebbe ricordare che anche

gettando il cuore alle ortiche queste fioriscono,

non si avvelenano.

Nuotano,

diventano alghe.

Così come “al largo sul mare una primavera o un’estate si sentono

soltanto come un soffio di vento”,

tutto non ha età.

Davanti agli occhi passa una rana che attraversa la rugiada;

la guardi e puoi pensare: potrebbe essere il mio cuore che salta?

A fianco di queste e in corsivo piccolo piccolo si notano

altre parole: suggestione rassegnazione rammarico d’amore,

Come Martinson che nel ’31 urlava al carbone:

DIAMANTE INCOMPIUTO,



“nell’erba il vento cerca qualcosa di perduto”.



Ma le parole nei prati vivono e fioriscono.

Ecco cosa significa allora ricordare

una frase in epigrafe di Hrabal, presa in prestito dal

bigliettino della lavanderia a secco:

certe macchie non si possono togliere senza

alterare la sostanza del tessuto






E’ davvero un lavoro serio la scrittura di Carmine Vitale, perché si ha davvero il tatto di ciò che è stato vissuto in questa ricerca, e viene da dirlo che questa è una strada della poesia, necessaria, perché ha in animo non soltanto un immaginare la vita e cantarla, e neanche un’immedesimazione da descrizione fedele e impeccabile: come in alcune poesie dell’est, che vengono talvolta evocate dall’autore, che nomina i suoi amati maestri e “amici” di tanto (di penna, di vita, di letture, di altro ancora), questa scrittura ha tutti i sensi dell’essere al mondo, più il sesto e anche il settimo (quello che può raddoppiarsi, non perché si è bionici, ma perché ci si può avvalere del dono della memoria e del presente: il sentire) senso, il cammino dentro e fuori le radici.


Le difficoltà di un poeta



da un margine all’altro

per evitare un tradimento

c’è il dimenticarsi della memoria.

Inesauribile è solo l’albero che pianta e nutre

radici di acqua e vento.

Ci sono queste cose scomparse, senza seme:

una vita andata, la morte del basilico sul balcone;

la coda di una lucertola,

una parete ridipinta, una poesia in transito, e qualche

posto di confine per fortuna abbattuto.

Ma non tutto scompare.

È così blu il cielo sopra l’asfalto

che brilla lo zucchero filato nella pioggia.

La strada che porta in chiesa è tutta in discesa

all’entrata attende un’altra acqua:



una donna pallida e confusa

l’usuraio

il violinista pazzo

e, mano nella mano, un medico abortista e il farmacista.

Solo un cane, con tutti i suoi sogni, non può entrare.

È la legge, dice.

Con una bilancia pesiamo le parole

prima dei due punti:

progetti per la bellezza,

variazioni del cuore:

pressione delle galassie,

quei nomi vecchi con cui prima si chiamavano i ricordi

la prima volta.

L’elenco dei congiuntivi

la primavera

l’estate

- guardare in faccia il sole

E accorgersi che non tutto muore -




mercoledì 12 febbraio 2014

BIANCA MARIA DE RIF RECENSISCE, NELLA PRESTIGIOSA RIVISTA "STUDI BUZZATIANI" IL LIBRO CURATO DA MAURO GERMANI, "L'ATTESA E L'IGNOTO".








L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati, a cura di M. Germani,

con una intervista ad Almerina Buzzati, Forlì, L’arcolaio, 2012.

Articolo pubblicato sulla rivista specializzata
“Studi Buzzatiani”

Non può non incuriosire il titolo di questo volume : L’attesa e l’ignoto. L’opera
multiforme di Dino Buzzati, curato da Mauro Germani per la collana “Prose”
dell’editore L’arcolaio, e non può non indurre il lettore a consultare l’indice e,
a colpo d’occhio, focalizzare tematiche – fra cui alcune, come cinema, musica,
teatro, spesso trascurate dalla critica – che ci introducono nell’essenza di Buzzati.
‘Essenza’ : termine volutamente scelto in quanto senza confini, imprecisato, in
assoluto imprecisabile, se non rapportato alla personalità cui va riferito, in questo
caso alla poliedrica personalità di Buzzati, che viene progressivamente raffigurandosi
nelle varie declinazioni interpretative proposte dagli autori che hanno contribuito
ad analizzare nella sua eclettica produzione i temi dell’attesa e dell’ignoto.
Un atto di omaggio questa raccolta di saggi, ideata, come mi confida Mauro
Germani (interpellato per capire le motivazioni che, a distanza di tempo dal numero
speciale della rivista « Margo », 1 l’avevano fatto tornare a occuparsi della
figura e dell’opera di questo artista), « per esprimere la mia profonda gratitudine
verso Buzzati, autore che non si finisce mai di scoprire e che a mio avviso merita
di essere riletto e studiato con attenzione. Autore anomalo, appartato, fuori dagli
schemi, artista totale, creatore di un’opera multiforme, eppure coerente e rigorosa,
segnata dall’interrogazione incessante sul destino dell’uomo e sulla condizione
umana, che mi ha fatto amare la lettura e poi la scrittura. L’ho scoperto all’età
di 11 anni, leggendo Il segreto del Bosco Vecchio, e da quel momento non l’ho più abbandonato
». Così, grazie al fil rouge dell’infanzia, ha preso forma questo volume
a cui concorrono numerosi contributi firmati non solo da letterati di professione,
ma anche e soprattutto da poeti, scrittori, giornalisti, pittori, traduttori : un mondo
variegato di intellettuali che hanno riletto e interpretato l’opera di Buzzati
anche a livello emotivo, psicologico e introspettivo. Ne risulta un quadro inedito,
policromo, in cui spesso sono oggetto di studio le stesse opere, ma esaminate da
differenti angoli di prospettiva e con intenti diversi.
Ritorna, ad esempio, anche là dove non ce l’aspetteremmo, il Deserto dei Tartari,
anche solo per un semplice accenno, per un’analogia cursoria in tutt’altro contesto,
come quello affrontato da Cristiano Poletti nella sua analisi dell’atmosfera
di suspense causata dall’amore, tema ricorrente nelle pagine buzzatiane. Amore
visto come « figlio della Mancanza » 2 in rapporto con l’attesa, la dimensione del
tempo, il concetto di misura, la misteriosa ricerca di sé, ed infine la « sospensione
dell’essere », 3 proprio quella indefinita e incessante provata da Drogo.
Seguendo il filone che mi piace etichettare dell’‘ignoto’ nel ‘noto’, merita attenzione
l’intervento di Rinaldo Caddeo, Ombre e impronte testuali in Buzzati, dedicato
all’influenza della lettura di Buzzati in giovane età (di cui subito informa, nelle
famose Lettere, l’amico Brambilla), della Storia straordinaria di Peter Schlemihl, romanzo
fiabesco di Chamisso. Il tema dell’ombra ritorna, osserva Caddeo, come
« una presenza diffusa, quasi pervasiva, nella produzione artistica sia pittorica che
letteraria di Buzzati ». 1 Ombre dalle più varie declinazioni nei romanzi, ombre
che « fermentano sia nei racconti di cronaca, sia nella cronaca vera e propria », 2 sia
altrove, come nella novella L’ultima battaglia o nel Deserto dei Tartari, in cui l’ombra
riveste « ruoli dominanti ». 3
Sono ombre che riprendono echi dalla letteratura romantica, ma li rinnovano,
in senso anche positivo, come nel caso « dell’ombra-anima di Procolo, che scappa
e poi ritorna dal suo legittimo e rinsavito proprietario », 4 o in senso profeticamente
sociale, come accade ne La giacca stregata, interprete, tramite Alfonso Corticella,
di quello che è oggi il male del secolo : l’inarrestabile avidità di denaro che si
diffonde, ora più che mai, nell’intera umanità.
Approfondendo questo concetto ci si sposta, con Pier Mario Vello, al concetto
di ‘dismisura’, preso in considerazione in rapporto alle « due sole lingue, di cui
l’uomo dispone per comprendere l’universo e se stesso : il numero e la lettera ». 5
Buzzati, nel suo modo di scrivere atemporale e spazialmente indeterminato, riesce
a rendere verosimili anche fatti impossibili : la goccia che sale, « vi dico, non
è uno scherzo, non ci sono doppi sensi » : 6 verosimile dunque come la gigantesca
nave da guerra dell’ultimo racconto La corazzata Tod, disegnata sullo sfondo di
un « mare che cammina in eterno [alla volta di un] lontanissimo orizzonte, interamente
disabitato ». 7
Svuotati i significanti, Buzzati, pur nel « telaio ridotto del racconto [...] mette
in scena un atto breve di vera e propria tragedia universale » : 8 ed è per questo che
Vello avanza un giudizio inedito di ‘realismo buzzatiano’ che, nota, « si radica non
solo nel factum grezzo, con il quale sorregge la suspance del racconto e il ritmo da
cronaca del suo dettato, ma anche nel far emergere il monstrum nella sua cosalità
grezza, nel suo immediato e irrazionale irrompere nella vita ». 9
Sempre nel contesto dei Sessanta racconti, oggetto di analisi poetica ad opera
di Gianfranco Fabbri è il modus scribendi di Buzzati, « scrittore delle profondità
inconsapevoli », 10 abile nell’uso di un linguaggio normale, per così dire scontato,
che « inganna notevolmente sia il lettore sia il personaggio principale », 11 come
ingannato/raggirato senza che se ne renda conto è il protagonista di Sette piani,
simile, nell’attesa dell’ineluttabile fine, a Giovanni Drogo.
Ed ora, a sorprendere il lettore di L’attesa e l’ignoto, è il saggio di Lucetta Frisa
in risposta all’interrogativo Chi sono gli orsi ? per “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”,
racconto accostato a Pinocchio, in quanto entrambi scritti per lettori giovani,
1 ed entrambi « episodi isolati nel complesso della [...] produzione letteraria » 2
sia di Collodi che di Buzzati. Rimarchevole è però la differenza fra i due racconti :
l’evoluzione è positiva per Pinocchio, « il burattino si trasforma, evolve in un “bravo”
bambino borghese... », 3 mentre è « nostalgicamente regressiv[a] » 4 per gli orsi,
che ritornano nelle montagne che avevano abbandonato per ritrovare se stessi,
tornano nella natura, per allontanarsi definitivamente da « compromessi di ogni
genere e inevitabili disillusioni » 5 della vita sociale della città. Una morale che fa
riflettere, questa, segnalata da Lucetta Frisa, che conclude puntando l’attenzione
sulle illustrazioni e sul rapporto di quest’opera con l’elemento femminile, che
lei identifica con la Sicilia, « metafora di un grembo pericolosamente corrotto e
seducente dal quale uomini [...] come Drogo e altri personaggi maschili, o come,
appunto, i poveri orsi sprovveduti, dovrebbero tenersi il più possibile alla larga ». 6
Giudizio azzardato quello dell’eclettica scrittrice? Sicuramente nuovo ; di certo
giudizio da non sottovalutare.
Ed ecco due racconti proposti da Marco Ercolani, psichiatra e scrittore di vite
immaginarie e testi apocrifi : il primo, brevissimo : Novelletta ; il secondo : La presenza
di un fuoco, presentati con il titolo : 1949. Due racconti di Dino Buzzati non raccolti
nel ciclo “In quel preciso momento”. Rimanendo misteriosa la fonte di tali scritti,
inevitabilmente siamo indotti a pensare che siano frutto della sua fantasia.
Un piccolo passo indietro e ci si ricollega al tema del fumetto con il saggio di
Federico Battistutta : L’esilio dei re delle favole. Buzzati fra mito e graphic novel, che si
occupa di Poema a fumetti inquadrandolo nella recente categoria del graphic novel, 7
ed individuando in quest’opera i tratti significativi che differenziano, attualizzandola,
la storia di Eura ed Orfi dalla fonte del mito classico di Orfeo ed Euridice.
Acausale, non-senso la morte di Eura, assimilata alla fine anonima che attende
ogni vivente, « la morte indifferente e insensata nella società contemporanea », 8 i
cui valori consistono ora solo nel tempo-denaro. Scontato ; ma a cogliere impreparato
il lettore e a farlo riflettere si presenta la conclusione finale, che si collega
al titolo : L’esilio dei re delle favole : « l’esilio degli dei non significa la loro morte definitiva
e ogni tramonto può preludere l’attesa di un nuovo mattino, la nostalgia,
a volte disperata, di un giorno nuovo ». 9
Fra le attività a cui si è dedicato Buzzati grazie al suo multiforme ingegno, non
poteva non essere preso in considerazione, in questo ricco volume, il Buzzati
giornalista, o, meglio, quell’« uomo di cultura completo, pieno di curiosità, e di
tormenti per il timore di non riuscire a portare a termine il compito affidatogli », 10
come lo descrive Ottavio Rossani nel suo saggio : Dino Buzzati giornalista : la realtà,
i fantasmi, le paure. Rossani inizia proprio dall’articolo di Buzzati sulla tragedia di
Albenga, nel cui incipit vibra la commossa partecipazione del giornalista, che non
resta indifferente al dolore delle madri dei 43 bimbi annegati. Analoga sensibilità
1 La famosa invasione infatti è stata inizialmente pubblicata a puntate nel « Corriere dei Piccoli
» : la sua penna la rivelava in altri casi di cronaca nera, da leggersi come spunti di
chiara esplicitazione di quello che pensava – e aveva il coraggio di denunciare –
« del male che nasce e si sviluppa dentro la società per i comportamenti egoistici e
dissennati di tutti ». 1 È questo il giudizio ammirato espresso da Rossani, giornalista
che non manca di dimostrare la sua gratitudine a Buzzati, che gli ha aperto la
strada alla sua attività, e che ricorda come uno dei suoi maestri.
Con l’articolo di Angelo Conforti : Romanzi e racconti di Buzzati al cinema, si
conclude la parte del volume L’attesa e l’ignoto inedita rispetto a « Margo ». Con
minuziosa e limpida premessa, quale solo può stilare un esperto del settore, come
Conforti, « critico cinematografico e studioso di semiotica del linguaggio filmico
», 2 vengono spiegate le differenze fra letteratura e cinema, « accomunati soltanto
sul piano delle strutture narrative ». 3 Quanto al linguaggio, al cinema spetta
il compito di modificare la struttura monoplanare di un testo letterario : ad esso
infatti il cinema attinge solo come fonte da rielaborare e riproporre in senso pluriplanare,
« passando attraverso i fondamentali codici iconici, iconografici, mimicogestuali,
musicali, e altri ancora ». 4 Eziologica illustrazione questa premessa di
Conforti, per introdurre con chiarezza argomentativa le problematiche affrontate
dai rispettivi registi nella resa cinematografica di Un amore, Sette piani, Il fischio al
naso, Il deserto dei Tartari, Il segreto del Bosco Vecchio e Bàrnabo delle montagne, senza
dimenticare che un film, comunque, « anche quando è tratto da un romanzo, è
un’opera autonoma, che va considerata nella sua specificità espressiva ». 5
Passando ora agli articoli pubblicati sul numero monografico di « Margo » l’attenzione
va al saggio di Mauro Germani, che indaga sui temi del segreto e della
morte nei personaggi di Bàrnabo, Giovanni Drogo, Sebastiano Procolo e Benvenuto,
per concludere con un originale approccio del Deserto dei Tartari e di Un
amore, opere lontane nel tempo e diversissime fra loro, ma accomunate dalla tensione
dell’attesa a cui è legata l’aspettativa della fine, ovvero della morte, nell’atmosfera
del silenzio « inascoltabile », 6 che prelude al venir meno delle aspettative
e, di conseguenza, ad una vertiginosa discesa.
Alla morte riconduce anche il tema del segreto, che, come evidenzia Germani,
« soprattutto nel Grande ritratto risulta irrompente e minaccioso », 7 perché « il segreto
del segreto è condanna infernale », 8 è « la domanda che accosta alla morte ». 9
Sono tutte sensazioni emotive che Buzzati scrive con la sua penna facile, ma facile
solo all’apparenza, come sottolinea Germani, che, nella parte finale del saggio,
menzionati gli studi di Nella Giannetto sull’argomento, conclude : « la semplicità
buzzatiana non può essere confusa con la banalità, ma considerata invece come
punto d’arrivo, come traguardo perseguito con lucidità e tenacia per il raggiungimento
di una maggiore forza espressiva ». 10
« “Con Buzzati se ne va la voce del silenzio” [...]. Così scriveva Indro Montanelli
sul « Corriere della Sera » [...] all’indomani della morte del grande scrittore ». 1 La
voce di Buzzati poeta è interprete del Buzzati uomo alla ricerca di se stesso e
della verità, sia sfidando i compromessi del mondo moderno – che spesso diventa
oggetto di toni satirici, ironici o grotteschi, nei suoi versi liberi, « imprevedibil[i]
ed ellittic[i] », 2 (così li definisce Pino Corbo, poeta) –, sia quando si libra in quel
mondo fantastico, dove prendono forma le vibrazioni oniriche dell’immaginario
e i sussulti dell’interiorità.
Al « romanzo dell’essere e del nulla » 3 Filippo Ravizza dedica una suggestiva
ipotesi interpretativa quando, in merito alla concezione del Deserto dei Tartari,
afferma che non si tratta di « un’opera razionalizzata e volontaria dell’autore », 4
quanto di « un’ispirazione magmatica cresciuta [...] da sola, scritta per autogenerazione
di un linguaggio che, heideggerianamente, è stato capace di rivolgersi a se
stesso ». 5 Il linguaggio di Buzzati è dunque legato alla consapevolezza dell’essere
e alla continua ricerca di un perché, che, in mancanza di un credo, inevitabilmente
identifica con il nulla.
Il Deserto dei Tartari ancora compare nelle pagine di Giorgio Bárberi Squarotti,
che propone una lettura allegorica di quest’opera (da lui annoverata fra i romanzi
fondamentali del ’900), applicata sia al contesto geografico sia al personaggio di
Drogo, « allegorie mirabilmente definite e descritte della condizione umana : e qui
sta la struttura fantastica del narrare di Buzzati, nel senso [...] dell’allegoria, enunciata
in un linguaggio che ha la lucida fermezza della lezione etica e metafisica
insieme ». 6 È questa una lettura – peraltro dallo studioso estesa dal Deserto ad altri
racconti e romanzi di Buzzati – che conferma l’attualità dell’opera dello scrittore,
ed invita a riflettere, tramite appunto l’allegoria, sul messaggio profondo, volto
ad indagare nei labirinti dell’esistenza umana con « una sorta di moralismo ammonitorio
». 7
A conclusione di questo articolato volume miscellaneo i saggi, dedicati al teatro,
alla musica e alla pittura dell’eclettico Buzzati, concorrono a definirne la
composita attività, il suo impegno di vita e i suoi intenti, come è il caso del teatro.
Circoscrivendo l’attenzione all’argomento teatrale, Mauro Gaffuri, già nel
titolo del suo saggio Dino Buzzati e il teatro, evidenzia che si tratta di un amore non
ricambiato. Egli registra infatti la delusione provata da Buzzati a causa del suo
insuccesso in quest’ambito, delusione che, negli ultimi anni, lo porterà a disinteressarsi
della produzione teatrale, del « mondo del palcoscenico, responsabile
ai suoi occhi di non aver del tutto corrisposto alla sua passione ». 8 L’impegno che
aveva profuso non solo « come librettista […] ma anche come scenografo, costumista,
bozzettista e figurinista », 9 non era stato percepito infatti da un pubblico in
grado di apprezzarlo. Le sue aspettative, di scrittore affermato in tutto il mondo,
e soprattutto all’estero, erano state disattese − anche nel caso di riduzioni teatrali
di suoi testi già famosi, concepite per « approdare all’efficacia, all’effetto, al colpo di
scena che attanagli lo spettatore », 1 − e questo forse proprio per il chiaro intento,
trasmesso tramite allegorie morali ed esistenziali, di denunciare drammaturgicamente,
spesso con ironia, causticità e toni polemici, i difetti dell’uomo e della
società contemporanea.
 Meno incisivo, sempre a questo proposito, il giudizio di Loris Maria Marchetti,
che parla comunque di « esiti alterni » 2 in merito a quell’universo teatrale che ha visto
Buzzati impegnato in diversi ruoli, sia come giornalista, sia e soprattutto come
« scenografo e costumista, in linea con le istanze di “visualizzazione” riscontrabili
analogamente nell’esperienza pittorica ». 3 E, come è noto, Buzzati era affascinato
anche dalla musica − violino e pianoforte i suoi strumenti preferiti − di cui, in sintonia
con Hoffmann, amava l’astrattezza e la dimensione dell’infinito. Riagganciandosi
all’aspetto musicale, Marchetti, con pregevole intuizione, propone un collegamento
con i contesti narrativi di Buzzati e fornisce un’utilissima, quanto essenziale
rassegna di romanzi e racconti in cui compaiono effetti di sonorizzazione e sottofondi
sonori. Si apre così una pagina che, come sottolinea l’autore, meriterebbe
ricerche e « approfondiment[i] critici che ancora attendono di essere impostati ». 4
I saggi sin qui menzionati fanno partecipe il lettore delle inconfondibili potenzialità
di Buzzati, interprete di atmosfere oniriche, delle dimensioni misteriose e
potenti che permeano gli oscuri meandri dell’agire umano, in una vita concepita
come un non-senso, alla ricerca delle ragioni ultime dell’esistere. Tutte emozioni
che Buzzati trasferisce nel suo personalissimo senso del colore, nell’amata pittura,
il mezzo espressivo più idoneo, come precisa nella celebre intervista a Panafieu,
per esprimere quel « quid difficilmente definibile, che gli altri non hanno », 5
Bene illustra Ernesto Mandelli (docente di discipline grafico-pittoriche), nel suo
breve contributo : Buzzati e la pittura : il filo invisibile, i fattori per così dire ‘teorici’
sottesi a questo quid : la passione per la pittura, i maestri da Buzzati conosciuti, le
fonti iconografiche, le tematiche che ricorrono nelle sue opere. Sono, questi, tutti
fattori preliminari per introdurci alla « singolare forza metaforica » 6 della pittura
di Buzzati, che richiama, a volte provocatoriamente, l’attenzione dello spettatore
coinvolgendolo nel fascino dell’inspiegabilità dell’arte. Non usa sfumature Buzzati
nei dipinti, così come non degna di attenzione i dettagli della punteggiatura
nella prosa, e tanto più in quella giornalistica. Ed è forse per questa sua elegante
linearietà che chi si accosta alla sua opera, pittorica o letteraria che sia, non si
sottrae alla seduzione comunicativa che da essa emana.
La parte finale di questo volume è riservata ai risvolti più intimi di Buzzati, con
l’intervista di Mauro Gaffuri ad Almerina : Dodici anni insieme, sei di matrimonio.
Precisa, sintetica, a volte lapidaria, Almerina sfoglia anni densi di emozioni, coinvolgendoci
così nella gioia dei ricordi come nella tangibile tristezza della malattia
e dell’attesa, affrontata da Dino con la sua abituale riservatezza e il suo signorile
distacco nei confronti dell’inevitabile.
L’opera multiforme di Dino Buzzati recita il sottotitolo di questo libro, ed in effetti
i saggi passati in rassegna colgono l’ampiezza dei registri espressivi buzzatiani,
la carica vitale del suo spessore linguistico e pittorico, ma senza la pretesa di una
veste scientifica. Sono contributi che combinano l’attenzione per i dettagli delle
pagine a considerazioni a volte relative a diversi livelli intertestuali scelti ad
hoc, a volte inerenti un ordine trasversale di lettura dei significati, allo scopo di
restituire il più possibile la dimensione del Buzzati interprete di se stesso e del
suo tempo tramite la forza immaginativa del pensiero e della fantasia. Pur non
avendo, come indicato, un’impostazione filologica, o scientifica che dir si voglia,
rimane comunque il rammarico che non compaiano, in alcuni saggi riproposti
dalla prima, lontana edizione del ’91, riferimenti bibliografici aggiornati, 1 che farebbero
percepire, soprattutto al lettore inesperto, l’ininterrotto progresso degli
studi sull’‘opera multiforme’ di Dino Buzzati.

Bianca Maria Da Rif