mercoledì 24 ottobre 2012

GIACOMO CERRAI RECENSISCE "LA TERRA FRANATA DEI NOMI" DI GABRIELE GABBIA - ARTICOLO TRATTO DAL BLOG "IMPERFETTA ELLISSE"






GIACOMO CERRAI RIFLETTE SU "LA TERRA FRANATA DEI NOMI" DI GABRIELE GABBIA

ARTICOLO TRATTO DAL BLOG IMPERFETTA ELLISSE - OTTOBRE 2012



Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi una campionatura, un significato che vada al di là della mera testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione, spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea, un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine - magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività del tutto peculiare.
Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,  L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso titolo. La prima impressione che intanto ne  derivo è come di uno scaldarsi i muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile). In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca - anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata - nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si palesa) c'è quindi il nulla.
"Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca un giovane a un  "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla (anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore. Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua, ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica, l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti, lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni), come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la  coscienza ha dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli. Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace, talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io  disperso, esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate sulle pareti della caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è solo per quei nomi che è stato possibile salvare.

GIACOMO CERRAI



giovedì 11 ottobre 2012

ROBERTO CARACCI RIFLETTE SUL LIBRO DI MARINA MASSENZ. "LA BALLATA DELLE PAROLE VANE"






     La zattera danzante delle passioni
di Roberto Caracci



La ballata delle parole vane è la ballata delle parole che non restano. In particolare quelle dell’amore. Resta la ballata, sì, resta il canto, la danza, il ritmo della vita, che anche e soprattutto di amore è fatta. E del resto qui non si parla di amore, ma di amori. Di amore al plurale. Di passione in cui una donna può credere, ma nelle sue mille sfaccettature, tante quanti sono ad esempio gli uomini.
L’aleatorietà degli amori è proporzionale all’intensità della loro esperienza vissuta, della loro fatale contingenza, dove l’immersione senza difese e senza tutele minaccia quel dolore che solo la distanza -lo insegna l’esperienza- può esorcizzare, spiegare e poi prevenire. L’oscillazione vertiginosa è questa, tra l’abbandono dell’anima nuda, spensierata e vulnerabile, e il ricorso alla sicurezza di mura difensive, che non ci lascino più combattere aspre battaglie in campo aperto. Mura fragili, comunque, diafane e permeabili, più un proposito velleitario di vita che una certezza, più un ideale regolativo che una garanzia.
Ma c’è qualche altra cosa che, oltre alla distanza, garantisce le mille elaborazioni del lutto degli amori: l’ironia. E allora l’oscillazione diventa quella tra l’approccio sofferto, tragico, depressivo al fallimento amoroso e l’ironica distanza di chi può farne poesia, canto, ballata. L’ossimoro è tutto qui: la giocosità del canto unita alla coscienza della vanità di quanto nel canto viene raccontato. In fondo è la stessa poesia che libera nel canto, che raccoglie l’esperienza, e non potendole fornire un senso definito, compiuto, scioglie l’insensatezza del vissuto nel ritmo della ballata.
E Marina Massenz ha un raffinato gusto del ritmo, della prosodia e della cadenza, anche quando- con una sottilissima arguzia psicologica (nel testo intitolato proprio La ballata delle parole vane)- ironizza sulla propria vocazione poligamica (Sono una donna/dai molti mariti) ed elenca una sorta di bestiario maschile, una tipologia di uomini dallo spirito animale: il veloce uomo anguilla, che si gonfia e si sgonfia/in un batter d’occhio, l’uomo falco che cade in picchiata/ par che si schianti, l’uomo polpo con molte braccia/e poco cervello, l’uomo-murena, che predilige lo stare in agguato, l’uomo-cernia, che ammicca, suggerisce/scodinzola e poi sparisce. Un pluri-ritratto zoomorfico alla Saba, rovesciato dall punto di vista femminile, dove la satira è bonaria e insieme pungente. Voi capirete ora certamente/perchè così tanti ne debba avere.
La Massenz ci racconta dunque di amori accesi e svaporanti, di viaggi del cuore a due dove la meta non è sicura, e neanche la condizione del viaggio; dove il letto stesso diventa una zattera per probabili naufragi, o per maturare la consapevolezza che un solo letto per due è troppo piccolo.
Ci racconta di burrasche di coppia (Ti vorrei far nero, pesto di pugni/ per ridurti in poltiglia…), di minacce di donna insicura finite in risa (Vedrai i miei canini/ allungarsi in zanne…), di cene in solitudine dove si rimugina l’inutile rappresaglia (Stasera ho a cena/Orgoglio, Umiliazione e Rancore). E dunque di tante parole vane dette o pensate per giustificare in qualche modo gli assurdi labirinti delle esperienze sentimentali. Ma poiché, come si diceva, una giustificazione vera non c’è, resta la trasformazione di questi frammenti di esperienza, felice e dolorosa, in una danza centrifuga e centripeta, che è il ritmo di una ballata scanzonata, dove la saggezza si identifica con una sorta di elogio della follia del vivere.
Talvolta, come nella lirica Incontri unilaterali, ci si incrocia senza riconoscersi, uniti in questa spaesante unilateralità dell’anonimia, dell’alienazione reciproca, della reciproca ignoranza. Nelle vicissitudini e negli ondeggiamenti delle passioni di coppia, dove -come direbbe Catullo- non esistono leggi né patti, le stesse maree d’amore/sono ingannevoli per definizione- scrive la Massenz nella bella lirica Luna chimera -Senza dubbio mutevoli/ con pelliccia di volpe.
Si succedono nel volume piccoli spietati ritratti di uomini-amanti dalla mimica animale, quello dal volto grifagno che sopporta/le effusioni della donna al mattino, le sue fusa di gatto domestico (Grifagno); quello che abbracciando comprime in spire di boa, e finge di dormire osservando lei con occhio liquido e freddo (Stritolamenti); quello dagli occhi come animali che guizzano e poi scompaiono.
Poi, fra una configurazione zoologica e l’altra, le tregue dell’amore, della passione, ma anche del rimpianto, della supplica, della richiesta di spiegazione: (Spiegami amore, finchè/ancora posso chiamarti così…). E nella struggente Istantanee con flash, la voce lirica si paragona a una farfalla notturna, falena sbatacchiante nel buio, presa nella nebbia di Milano da una nera stanchezza. Spesso qui l’uomo figura come l’assente, o meglio come colui che si allontana. Resta nella donna una memoria del corpo che la fa vibrare come in un tango, che tambureggia il proprio ritmo nel cuore di lei lungo le vie della città (vedi la splendida poesia Tango). E così lei diventa una affannata spia delle tracce lasciate da lui seminate.

A balzi mi affaccio in sospetto
di imminente informazione, ma
nessun bisogno di ulteriore affetto,
garantita adeguata organizzazione.
(Come un affanno)


Dove ancora una volta l’oscillazione è tra lo sprofondamento nella passione che non dura e l’istanza di una distacco ironico, a autoironico, che la poesia -anche quella della parole vane- può garantire. La lapidaria chiusa di questa ultima lirica è tanto amara quanto intrisa di consapevolezza. E’ la consapevolezza della necessità di conservare l’unità dell’io, malgrado la molteplicità dei fuochi fatui delle passioni e di chi le accende. Del resto, non aveva detto la poetessa nella prima sezione del libro di essere pronta a raccogliere in un gran fascio la molteplicità dei colori della vita, delle contrade e degli stessi uomini con cui quei percorsi erano stati compiti? La poesia, come ballata, ha come compito proprio quello di ‘raccogliere‘ nel suo legein la caotica molteplicità dell’esperienza, e farne danza, ritmo.
E’ un ritmo a cui la Massenz ama lasciarsi andare, con un pizzico di virtuosismo musicale, timbrico e fonetico- rime interne, anafore, paronomasie- che regala al lettore una trasognata piacevolezza di lettura.

Nella terza sezione del libro, Le capriole del ‘noi siamo’, le lacerazioni delle prime parti paiono ritrovare una loro sutura, una riconciliazione. Intanto viene a galla la dolcezza del ricordo, che investe giorni e notti di amori veramente vissuti, pur nella loro transitorietà. (Ci siamo uniti molte volte nell’acqua… Mi resta un guizzo/lo ricordo nel corpo… Facevamo all’amore solo con le mani/ come ciglia vibratili…)

In questa ballata di parole vane e di esperienze che non lasciano tracce se non sotto forma di ritmo e ballata del vivere (e del verso), traluce ora una sorta di accettazione sapiente, controllata, del baccanale dell’esistenza.

Sedotta, consegnare e recedere;
abbandonata all’abisso in cadute
mozzafiato affronto il baccanale,
solida sbornia di specie carnale…


Ma tutto questo senza dimenticare quella striscia sottile d’ironia con cui è necessario affrontare le acrobazie dello stare in due.

Ma se deponi le lance e i moti dissuasivi
percorrere forse possiamo
quella striscia sottile d’ironia
le capriole del ‘
noi siamo‘.


Una proposta di tregua, forse, o di spontanea accettazione a due di un vissuto che ci vede tutti coinvolti in un pazzo sabba di sentimenti e insieme selvatica voglia di libertà. Dove l’uomo può anche sollevarsi da uno dei tanti letti della vita come un cacciatore che punti l’arma contro la sua preda, ma diritto della donna è poter sottrarsi a tutto questo, e fuggir via dall’ennesimo letto o dall’ennesimo fucile di uomo come un cervo che non si fa impallinare.

Ma quando invece ti sollevi cacciatore
e punti il cervo, il suo palco mal celato tra
le foglie, allora abbassa l’arma e lasciami
fuggire; guarda come corro, verdi balzi
in ogni direzione, elastici appoggi…
ho una mia grazia selvatica!
(Lisciami)


Nel meraviglioso viaggio ad ostacoli di un percorso di coppia, molto si gioca una donna. Ma bisogna a un certo punto anche sentirsi liberi da quelle stesse regole che hanno dato un ordine a quel gioco, a quel viaggio. Perché è già difficile dire a se stessi, nei vari bilanci della vita, io sono. Molto più complicato, evidentemente, è provare a vincere la difficile, ambiziosa scommessa, anche quella infiammata dall’amore, del noi siamo.
ROBERTO CARACCI