venerdì 30 marzo 2012

FRANCO CASADEI RIFLETTE SULL'ULTIMO LIBRO DI NARDA FATTORI "LE PAROLE AGRE"















LE PAROLE AGRE DI NARDA FATTORI

RECENSIONE DI FRANCO CASADEI

Ogni volta che mi accosto ad un libro di poesie mi succede come quando incontro una persona sconosciuta e con la quale, per motivi contingenti, mi devo relazionare. In entrambi i casi lascio che sia il libro (o la persona) a parlare di sé.
Io ascolto (o leggo), spesso rileggo, sottolineo alcune parole che mi colpiscono, uso l’evidenziatore, insomma faccio come i sommozzatori che cercano di riportare a galla ogni reperto utile a capire e a decifrare “il sommerso”.

“Perché?” Mi si potrebbe domandare, aggiungendo forse “non ti può bastare l’uso delle parole che fa l’autore, per poter poi dare un giudizio sul lavoro?“ ed ancora: “perché sforzarsi di capire il sommerso, quando è sufficiente ciò che viene a galla per farci dire se il carico aveva importanza?”

Certamente l’apparenza, la presentazione, l’impatto emotivo sul lettore, hanno importanza, ma io sono convinto che in poesia sia più difficile che in prosa barare con il lettore. O un autore possiede un suo spessore “etico”, oppure è solamente un giocoliere con le parole, bravo, magari eccellente, ma sono del parere che per chi legge sia necessario poter affondare le labbra in una ciotola piena di un gusto al quale il suo palato si senta affine, altrimenti potranno anche raccontarci che ostriche e caviale sono il meglio del godimento, ma per chi s’è formato il palato sopra un brasato giunto alla cottura a fuoco lento e magari innaffiato con un barolo un po’ invecchiato, non c’è ostrica che possa reggere il confronto.

Tutto questo preambolo cultural - gastronomico per avviare a parlare dell’ultimo libro di poesia di Narda Fattori intitolato “Le parole agre”.

Agro: lo Zanichelli ne fornisce queste definizioni:

di sapore pungente, acido;
sin. : acre, aspro;
fig. : severo, aspro, malagevole, difficile da sopportare.


Forse tutte e tre le definizioni possono calzare accanto al sostantivo “parole”, ma, dopo un paio di letture del testo, vorrei dire che “parole difficili da sopportare” potrebbe andare meglio, e, forse, interpretare meglio le intenzioni dell’autrice.

Anche Narda, come Bianciardi, autore del romanzo cult degli anni ’60, (sfortunatamente messo un poco da parte dalla contemporaneità letteraria) “La vita agra”, è scrittrice a disagio nella società in cui vive, e lo dice a pagina 28,

“confesso che non so nuotare”

e non solo questi versi questo disagio è detto, ma nella stessa poesia ella aggiunge

“ho brancicato / …”

lasciandoci chiaramente intendere ciò che noi sappiamo attorno a questo verbo, cioè l’atto di ricreare un interruttore o una candela con la mano, quando ci troviamo al buio, ma a questo punto fa seguito una tristissima terna di versi:



“… / e non ho visto il faro
non ho voluto vederlo
non ho voluto vedere

come tanti distratta
ora sul fondo e senza branchie”

La persona che mi parla “è sul fondo” e non può respirare, ecco la mia impressione al contatto di questo vissuto e non posso restare indifferente di fronte a quel messaggio in bottiglia che rappresenta sempre una poesia.

Ma c’è molto pudore nel concedersi a chi legge in Narda. Lei non esibisce il suo dolore, la sua incapacità di adattarsi alle consuetudini, e tutto il libro è intarsiato con versi che testimoniano l’amore per il mondo e per gli uomini, il bisogno umano di condivisione spesso oltraggiato dalla società, come scrive a pagina 42, indirizzandosi alla nipote Isotta;

“se non hai passioni e sogni grandi
resti all’anagrafe solo un rigo nero”

È una persona ricca di un dolore molto spesso inconfessato, oppure detto con tanta riservatezza da non apparire quasi, e credo che la poesia che meglio di ogni altra testimoni questo dolore sempre presente e spesso soffocato sia a pag. 38 e vorrei riportarla per intero:

“Fra gli spifferi del vento
novembre mi scava una voragine
nel palmo vuoto della mano
che ieri ti tenne per amore
e oggi giace senza fiato
lungo un fianco.

O quanto fosti sangue
per la mia carne e sui miei passi
ombra e cielo e sole e erba

Tu che hai riempito il tempo
di esultanza che ora latita
e neppure piange.

Tu bellezza sola fragranza.
E ciclicamente torna novembre
nel palmo delle mani solo freddo.

M’accuccio fra la nebbia dei dossi
ma il resto duole
e la scienza non sa non comprende.

Cartesio si dichiara assente.

La sobrietà espressiva è massima, nessuna concessione al bisogno di dire, alla ricerca di finto sentimento. Tutto è amaramente disegnato in quel verso finale che vuole rappresentare l’assoluta mancanza di razionalità nel dolore.
Non mi è possibile passare attraverso i versi di Narda facendo finta di non aver letto tra le righe quel bisogno disperato di credere in un disegno soprannaturale sulla nostra vita, ma nascosta all’autrice, e cito:

a pagina 35

e l’anima si flette e si spezza
canna di fiume neppure buona
a fare con le foglie barchette
che alla deriva vanno
se la sorte fornisse un approdo
una pozza d’acqua ferma uno spicchio di cielo


a pagina 40

la maestra via
che porta verso un altrove
che non ho mai trovato

a pagina 43

Me ne andrò dunque sola all’oscuro
ma non avrò paura non mi stupirò
se nessun luogo è in attesa

ma particolarmente nel finale della poesia a pagina 50, questo senso di delusione per l’attesa mancata è evidente.

La seconda sezione – Frammenti di anatomia – è come un colpo di pugnale. La poetessa, la donna, descrive la donna, le donne, nelle più svariate sfaccettature: la sconnessa, la mentitrice, la scampata reclusa, la predatrice, la svergognata, l’indignata, l’assassina, la non perdonata, la bestemmiatrice, l’assalitrice, la disperata, la ladra, l’ammalata, la precaria, la liberata e altro ancora. Ogni donna potrebbe sentirsi espressa in una o più di queste raffigurazioni femminili, in un crescendo di fatica, di prova, di emarginazione (“le cime di roccia / dicono del mio canto di pettirosso / smarrito sui rovi di un cortile senza nome”; “La non perdonata…tornò a peccare a essere umana / dolente e innamorata / … va a tentoni / molto somiglia a una Maddalena”; “io sono precaria e destabilizzata / …nessuno e nessun luogo mi attende”; “io sono un nido alle prese con la bufera / attaccata con sputo e fango alla tegola”). Donne raccontate nella loro storia di dolore e di pena, con uno sguardo partecipe, non distaccato, quasi che la poetessa sentisse nella propria carne la stessa condizione, quasi a volerla condividere. Di più. Fino ad essere lei stessa la protagonista di quella umanità addolorata.

Si deve giungere all’ultima lirica per arrivare a riconoscersi tutta la dignità e la grandezza della propria statura umana di donna, con alcuni versi di una fattura e di un respiro straordinari (“sono una donna di poco pregio /… eppure il mio meraviglioso stare s’alza / sopra il gracidare delle rane annidate nel pantano / Donna di poco pregio che gli incanti legge / e tutte le miserabilia sull’omero sorregge”).

Un libro non facile, per momenti di silenzio in cui mettersi a nudo davanti alle parole e al loro significato, per pensare alla propria condizione umana e alla nostra posizione di fronte al destino. Un linguaggio scarno, colto e popolare al tempo stesso, adeguato al contenuto che scava la vita e il suo percorso.

Franco Casadei

2 commenti:

  1. Un grazie a Franco, così attento e accurato , e anche a te Granfranco per questa divulgazione.
    Narda

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  2. Dovere (e piacere), cara Narda.
    Tuo Gianfri

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